Muore giovane chi è caro agli dei
Ogni civiltà costruisce la sua cultura per stanare o almeno frenare la silenziosa implacabile tarma che la svuota dal di dentro e ne corrode la sostanza vitale sino al collasso: la morte. I Greci antichi opposero le loro tombe ad argine dell’oblio di colei che tutto rapisce. Chi moriva senza sepoltura era costretto a vagare in un crepuscolo incerto tra il buio e la luce, inquieto per il morto e inquietante per i vivi.
Chi rimaneva senza tomba cadeva definitivamente nel silenzio e non entrava neanche nel mondo dei ricordi, l’unica immortalità che consolava l’assenza. Ma per entrare nel ricordo bisognava aver lasciato il segno, per questo i Greci chiamavano la tomba «segno», unico baluardo capace di pietrificare colei che pietrifica la linfa della vita. Ma i Greci andarono oltre, e inventarono la poesia degli eroi. Anche la pietra delle tombe può sgretolarsi, ma non le parole, unico vero segno che non si sbriciola: chi entra nel canto per le sue gesta sul campo sarà ricordato per sempre. Così fu di Achille che preferì morire giovane ma ricordato piuttosto che vecchio e dimenticato. Il giovane eroe preferiva la sua bella morte, nel gesto estetico che riscattava l’orrore della fine prematura, per questo un poeta osò dire che muore giovane chi è caro agli dei. Era preferibile morire dando la vita sul campo ed entrare nella memoria sociale, contribuendo all’unità culturale del gruppo, che scivolare nel silenzio dei senza nome. Ma questo era privilegio di pochi, nell’aristocratica e greca sfida alla morte.
La morte di Piermario Morosini ha scosso le fondamenta dei nostri corpi perché ha scosso le fondamenta stesse della nostra società senza argini alla morte, perché la sua è una morte ben più democratica. Come tutte le morti di giovani ci costringe infatti a ripartire da zero. È morto sul campo colpito da una divinità che sembra quasi essersi accanita contro di lui come gli irosi dei antichi: orfano dei genitori, con un fratello suicida e una sorella disabile. Tutti siamo rimasti inchiodati ad ascoltare le parole che ci hanno raccontato, in una specie di canto epico in prosa, il vivere e il morire di questo ragazzo, sempre sorridente e così simile a noi, sul campo verde della guerra stilizzata del calcio.
La nostra società, se capace di affrancarsi del semplice voyeurismo a cui ci costringono alcuni media (che ripropongono la morte di un giovane alla moviola come fosse un gol), si ritrova unita e attonita di fronte all’unico grande mistero: che cosa ci riscatta dalla morte? Morosini, come già Simoncelli, ci ricordano che non siamo eterni – gli uomini sono come le foglie dice il poeta di Achille – e che saremo stati, se riusciremo a vincere la morte.
Oggi come ieri merita la tomba e il canto chi muore da eroe, chi muore sul campo, ma oggi diversamente da ieri può essere eroe chi muore sul campo della sua lotta quotidiana, nell’eroismo che non accetta il compromesso, la raccomandazione, la scorciatoia, la furbata, ma dà la vita onestamente, anche nel silenzio di un’officina, di un’aula, di una cucina, di un ospedale.
Morosini, liberato dalla sua morte spettacolare, ci sveglia tutti. Ci ricorda che ognuno dovrà affrontare Medusa e potrà sconfiggerla solo se sarà capace di sorriderle, come sapeva fare Piermario anche fuori dal campo. Di questo eroismo quotidiano e democratico, che il sacerdote del funerale ha chiamano santità, ha bisogno la nostra cultura imborghesita e stanca.
Articolo bellissimo. Finalmente dopo tanti commenti e tante parole vuote sono arrivate le tue a farci riflettere e riportarci sulla retta via.
Mi ha preso una stretta al cuore appena finito di leggere. Secondo me è il migliore che fino a qui hai scritto.
Con parole semplici hai messo in campo i temi che sono della vita di ognuno di noi su questo pianeta. Oggi, Earth Day, capiamo quanto è importante il rispetto per questo nostro piccolo e fragile pianeta anche attraverso il rispetto che, prima di tutto, dobbiamo alla vita e alla morte di ogni essere umano.Attraverso le parole possiamo sempre raggiungere una maggiore conoscenza di noi stessi, del nostro mondo e tu con le parole costruisci sentieri che attraversano e illuminano la nostra coscienza, individuale e collettiva.Complimenti!
Ho sentito che Piermario diceva che era fortunato perché aveva ricevuto più grazie che disgrazie. Ha ragione il sacerdote: c’è bisogno di santità. Mi capita spesso di sentire le persone lamentarsi: Piermario non si lamentava, sorrideva e ringraziava perché aveva occhi per vedere il punto bianco sul foglio nero. Noi spesso facciamo il contrario: ci lamentiano del punto nero sul foglio bianco. La vita non è semplice, anzi, spesso ti prende a bastonate, ma ho imparato che ogni cosa ha un senso. Una persona mi ha detto che la vita andrebbe vissuta al contrario perché dopo capisci il perché di quel che ti è capitato prima….e le bastonate ti raddrizzano la schiena. E’ lo scandalo della croce: se non accetti la croce, non puoi risorgere; se non accetti di soffrire non puoi arrivare alla gioia piena. L’uomo di oggi ha commesso un gravissimo errore escludendo Dio dalla sua vita e con Lui ha cercato di estromettere la sofferenza e il dolore…ma la vita è anche sofferenza e dolore: ti puoi anestetizzare per non sentirli, ma non puoi eliminarli.Dio poi è un grande Educatore, anzi L’Educatore per eccellenza perché è Padre e Madre insieme che ci rialza quando siamo per terra, ci dà la forza per portare la croce, lo Spirito per vedere cosa si cela oltre l’apparenza ed andare in profondità, ma il mondo non conosce Dio, mentre Piermario sì. Smettiamola allora di lamentarci, chiediamo a Dio di aiutarci a guardare con gli occhi del cuore perché solo allora tutto diventa visibile, anche quello che è invisibile ad un semplice sguardo umano…Grazie Piermario per l’esempio di santità che sei per ognuno di noi! Lena
lo sappiamo tutti che la morte tutti i giorni si va sentire(in tv)o leggere(sui giornali)..ma fa’ paura fermarsi ogni giorno e chiedersi:perche’? come disse il beato giovanni paolo II : bisogna essere sempre pronti a vivere e pronti a morire.
E’ bello sapere che una persona come lei insegna!
Appena ho letto questo articolo ho provato un moto di invidia,di quelli che ti gelano, che ti fanno sbattere i pugni sul tavolo,che ti mettono di cattivo umore per una giornata intera.
Il solito stato d’animo che si accende tutte le volte che si manifesta una incrollabile fede, difronte ad eventi di questa natura.
In tutto questo, mi auguro che il buco nero che ha certamente inghiottito Anna Vavassori, possa essere almeno ferito e disturbato da questa luce che accompagna per tutta la vita chi ha fede.
Perchè se non fosse così e spesso non lo è,una impercettibile parte di sè, che viene fuori più volte di quanto non ci si aspetti, resterà sola, sola per sempre.
“Invictus”
Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come il pozzo senza fondo che va da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio possa esistere
Per la mia anima indomabile.
Nella stretta morsa delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato
Sotto i colpi avversi della sorte
Il mio capo sanguina, ma non si china.
Oltre questo luogo di rabbia e lacrime
Incombe solo l’orrore dell’ombra
Eppure, la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto sia stretta la porta,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.
Questa è la poesia che leggeva Nelson Mandela durante la sua prigionia per ritrovare la forza di combattere contro le leggi ingiuste e razziste dell’apartheid. Fu scritta da William Ernest Henley, un uomo che riuscì a diventare poeta e giornalista, nonostante fosse affetto dall’età di 12 anni da una grave forma di tubercolosi ossea, che l’avrebbe poi portato a perdere una gamba. E’ una poesia che mi ripeto spesso quando mi sento giù di morale e ogni volta mi dà una carica enorme, perché mi ricorda che siamo noi a decidere chi essere, la vittima o l’artefice del nostro destino. Le disgrazie capitano a tutti, indiscriminatamente, sia che ce lo meritiamo o meno, non possiamo fare niente per evitarle, quello che possiamo fare è però scegliere come reagire, se lasciarci abbattere o continuare a sorridere nonostante tutto. Possiamo passare ore (e nel mio caso mesi) a piangere, a urlare, a chiederci perché tutto ciò capita proprio a noi, oppure possiamo rialzarci, riprendere le redini della nostra vita e ricominciare a vedere la bellezza di ciò che ci è stato donato, mostrando con orgoglio tutte le cicatrici che nel frattempo ci siamo procurati, perché esse sono il segno che abbiamo lottato e che nonostante tutto riusciamo ancora a farlo. Piermario lo aveva capito, per questo sorrideva alla vita, anche quando avrebbe avuto molte più ragioni per piangere, io ci ho messo molto più tempo e me ne vergogno a dirlo, perché le mie disgrazie non sono neanche paragonabili alle sue, ma con un po’ di aiuto alla fine la luce della speranza ha liberato anche i miei occhi dall’ombra del pessimismo.
Ho sempre creduto che si muore quando si è portato a termine il proprio compito, la propria missione e, in quest’ottica, la morte di un giovane o un bambino non è meno giusta di quella di un anziano. E, per quanto misteriosa e insondabile sia, mi sforzo di considerarla una compagna di viaggio, per arrivare alla fine del cammino a chiamarla sorella, come la definiva San Francesco d’Assisi. Forse bisogna sforzarsi di cambiare prospettiva e non sentirsi traditi dalla morte, ma considerarla una potente alleata: se avessimo un tempo infinito dubito che lo impiegheremmo bene, o ci sforzeremmo di migliorare. Certo, lascia un vuoto incolmabile e se non ci si “allena” ogni giorno, quando arriva il momento si è travolti. E, in ogni caso, la morte segna un passaggio, ma, in un’ottica di fede o, comunque, di dialogo, per cui si rimane aperti alla comprensione, saldi nell’attesa e si vigila su se stessi, mi sento di poter dire che “sorella morte” arriva sempre al momento giusto. E’ un concetto difficile, che richiede tempo, ma, se si è disposti a concedere questo tempo, la morte ti modella, ti desta, ti costringe a prendere in mano la vita.
E lo dico dopo aver attraversato il lacerante dolore della perdita del mio amato papà.
Mia mamma morì all’improvviso per un’embolia, quando aveva 33 anni, per cui molto giovane.
Io avevo un anno e tredici giorni e sono ancora lì,ad aspettar che torni.Forse penso sia andata a far la spesa.
Credo che abbiamo un modo di reagire alla morte, molto legato alle nostre esperienze, come se facessimo inconsciamente dei raffronti fra i nostri dolori e quelli altrui. Capita di soffrire molto per alcune e meno per altre e non capirne il perchè. Ci si sente ingiusti, con la coscienza non del tutto onesta.
Certe morti poi, sono così poco annunciate, che aspettarsele è impossibile e aspettare un replay o un ritorno, così disperatamente lungo..
Tutti muoiono, non tutti vivono però. E nella vita di tutti i giorni non ti accorgi di passare accanto a persone meravigliose, come anche a chi la sua esistenza la sta sprecando. Bisogna per forza aspettare di finire sotto terra perchè qualcuno si accorga che ci sei stato?
Restiamo scossi di fronte a queste cose, ma io non avrei mai saputo chi fosse Morosini se non fosse morto. Vorrei tanto continuare a non sapere chi era, se potesse vivere ancora, ma perchè il bello delle persone lo veniamo a sapere sempre quando è troppo tardi per dirgli grazie?
tutto bene,per carità….
ma io ancora non riesco ad accettare e a capire certe cose come quella che è capitata oggi nella mia città..
nella pagina di cronaca locale,accanto agli auguri per la nonnina ultracentenaria,c’è anche la triste notizia della morte improvvisa di una donna di 33 anni,madre di tre bambini…
che risposte mi date?Perchè quando accadono fatti del genere,io non ne ho nessuna.
grazie
Se avessimo la risposta cosa cambierebbe nelle nostre vite?
forse avremmo qualche certezza in più,forse…
forse avremmo una spiegazione da dare a quei tre piccoli bambini orfani,forse…
forse sapremmo come chiamare quei genitori a cui muore una figlia(non c’è un modo,non sono orfani nè vedovi,perchè è innaturale,come dice Calabresi)
e che libertà ci resterebbe?
la libertà di crederce o non credere è individuale e nessuno te la toglie
San Francesco la chiama “sorella Morte”, perchè in fondo ci sta accanto fin da quando nasciamo. Puoi credere che dopo non ci sia niente, se questo ti fa stare più in pace con la ragione, puoi anche credere che non abbia senso… e allora non ha senso che tu sia qui, che ci sia la vita e il mondo intero. Se noi sapessimo perchè le persone muoiono, perchè in quel momento e non dopo, non saremmo uomini, ma Dio.
Immagina di poter scegliere chi vive e chi muore: come potresti decidere?
Sant’Agostino dice “Non piangere più se veramente mi ami”, perchè devi sperare, e puoi credere e fidarti, oppure piangere e la morte sarà soltanto un’altra paura bianca.
La morte non è un torto o un offesa al genere umano e sarebbe presunzione dichiarare che qualcuno merita di restare in vita più di altri, come lo è stabilire a priori se qualcosa ha o non ha un senso.
La morte è un evento, doloroso, ma parte integrante della vita, non si può scegliere di non lasciarsi toccare da essa, ma puoi scegliere se vivere il suo tocco come una carezza o come uno schiaffo. E bisogna darsi tempo.
Monica hai riassunto e interpretato il mio pensiero. Hai usato parole semplici e hai, secondo me, centrato il problema e cioè: nessuno muore perchè deve essere punito o perchè è amato dagli dei, ma fa parte del ciclo vitale; ciò non toglie che è il passo più impervio della vita.
Se avessimo la risposta alla morte forse ci sarebbero più certezze nella nostra esistenza. Io credo però che le uniche certezze che si possono avere sono gli istanti di vita che si vivono,quelli in cui sei chiamato a sorridergli dignitosamente perchè sai che c’è stato un qualcuno che te li ha donati e che allo stesso tempo un giorno se li riprenderà.
ha lasciato il segno….!!!