18 marzo 2025

Ultimo banco 237. Quest’unica vita

In un recente incontro con studenti mi è stato chiesto: «Come si fa a trovare e custodire la propria identità in un contesto che spinge a stereotiparsi?». Ognuno di noi ci sarà una volta sola nella storia. Da questo «sentimento di sé» dipende cosa fare di sé: lottare per la propria fragile unicità o, pur di essere qualcuno o qualcosa, tradirla con copioni già scritti (omologarsi significa infatti «dire lo stesso, ripetere»)?

Una risposta alla domanda l’aveva data un secolo e mezzo fa un filosofo che aveva colto in anticipo la crisi della cultura di massa: «L’uomo che non vuole appartenere alla massa non deve far altro che cessare di essere accomodante verso se stesso, segua la sua coscienza che gli grida: Sii te stesso! Ogni giovane anima ode questo appello giorno e notte e ne trema, perché sente la misura della felicità assegnatale dall’eternità posta nelle catene delle opinioni e della paura» (F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, 1874).

Non è l’appello a un superficiale spontaneismo ma, per chi possa e voglia sentirlo, una chiamata all’unicità che fa tremare ogni giovane anima, anzi ogni anima giovane, cioè ogni persona che abbia un sentimento di sé gioioso, la consapevolezza della neologazione (il mai detto) contro l’omologazione (il già detto). Come spezzare allora le catene del così fan tutti e della paura di non piacere che impediscono questa gioia di vivere?

L’evoluzione ha ridimensionato l’istinto che detta all’animale il da fare: noi non viviamo per istinto, ma per scelta, infatti contro ogni istinto possiamo persino toglierci la vita, così come possiamo aumentarla. Abbiamo infatti riempito il vuoto lasciato dall’istinto con la cura: l’educazione, che i Greci chiamavano paideia e i Romani humanitas, cioè il processo consapevole di mettere un giovane in condizione di compiere la propria identità in generale (origine) e in particolare (destino). Un processo sintetizzato nel classico: «diventa ciò che sei», presente nelle parole di Nietzsche. Ma se lo dico a un mio studente, mi chiederà: «E che sono?». Vuole che sia io a dirglielo, perché la cultura di massa in cui è immerso non lo spinge a scoprirlo ma a subirlo.

Chi non scopre «ciò che è» nell’età fatta per questo finisce, avverte Nietzsche, in balia di ciò che fanno gli altri («le catene delle opinioni») o che gli altri vogliono faccia («le catene della paura»): stereotipi. Ne facciamo tutti esperienza al ristorante quando, indecisi, diciamo: «Lo stesso, anche per me» o ci affidiamo al piatto del giorno. Fare come gli altri o far decidere loro per noi ci libera dall’insostenibile peso dell’esserci una e una volta sola nella storia.

La mancanza di uno sguardo educativo (umanizzante) impedisce ai ragazzi di mettere insieme origine (ciò che sei) e destino (diventa). Ho battezzato questo mancato sentimento di sé anodissia, mancanza di odissea, cioè triste stasi per assenza di Itaca, di terra da raggiungere. Una terra che invece è già nostra, che è in noi. Apparteniamo infatti alla specie umana, homo, dicevano i latini per indicare l’umano (maschile e femminile), da humus, il terreno. Anche Adamo, nel racconto biblico, non indica il maschio ma l’umano e significa «fatto di terra» (adamah è la terra arabile).

Qual è allora la nostra terra? Come l’origine si dà in noi? Chi e come sono io? Con quale carne sono venuto al mondo? Per possedere questo suolo «umanamente» bisogna però volerlo ricevere: sceglierlo e farlo proprio. La prima difesa contro lo stereotipo è quindi imparare ad amare ciò che non abbiamo scelto, che ci è toccato. Che ci piaccia o no il terreno in cui siamo nati è la prima autorità (da augeo: far crescere) a educarci, se la rifiutiamo e vogliamo fare da soli (il «diventa ciò che vuoi» contemporaneo) a quella autorità sostituiamo il potere, perché non si può costruirsi dal nulla come ci fa credere la balla del self-made.

Il primo gradino di una unicità libera è quindi riconciliarsi con la nostra storia, accettare chi siamo anche se non ci piace. Per farlo bisogna liberarsi dall’abitudine di incolpare qualcuno: genitori, società, sfortuna, Dio… Questo ri-sentimento, verso un presunto o reale colpevole, non è il sentimento primario di sé ma un sentimento secondario che serve al giovane (e a chi rimane immaturo) ad allontanare la terra e la fatica che richiede lavorarla.

Il risentimento è l’alibi per non crescere, impedisce di baciare la terra che calpestiamo: la vita com’è. Ma questo capita a tutti, perché la terra che ci è capitata è piena di ferite: la vita non è come l’avremmo voluta o come dovrebbe andare. La campagna però ci insegna che proprio la terra ferita (arata) dà frutto: il vomere, che (prep)ara il suolo, non ferisce ma apre alla vita. Solo la terra solcata permette il passaggio di acqua e ossigeno, diventa viva, feconda, accogliente: campo (da una radice che significa «tagliare»), oggi però «avere campo» non significa lavorato per ricevere il seme, ma connesso a un segnale… Le vocazioni (nome del sentimento gioioso di sé) cominciano sempre con l’essere «atterrati» e «atterriti»: nella famosa Conversione di San Paolo di Caravaggio (1601), il protagonista è a terra, impaurito, accecato, con le braccia aperte come il solco, caduto da un cavallo inventato dalla tradizione pittorica. Così da assassino di innocenti diventa loro difensore.

La domanda dei ragazzi non ha quindi una soluzione da manuale, ma richiede un processo educativo (famiglia e scuola) che li faccia prima «cadere» dal cavallo del potere che omologa, che li tiene distanti dalla terra (oggi è la vita online), da cui poi smuovere lo strato pietroso e superficiale del risentimento, per raggiungere il terreno capace di dare energia al seme che potrà cercare la luce. Chi si fa campo poi si apre al cielo, alla propria altezza. L’umano è infatti verticale come gli alberi (non andiamo a quattro zampe, abbiamo il tronco e la chioma) ma in movimento, piedi per terra, testa in cielo.

Ma che cosa è questo cielo? Il mare aperto dell’Odissea, il rischio della libertà e della vita stessa, il frutto che possiamo dare solo noi: in alto. Non c’è chioma senza sottosuolo, cielo senza terra. Cristo diceva infatti ai suoi: «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?» (Gv 3,12), non può avere cielo chi non ama la terra, chi non si inuma (da in e humus), chi non si fa terra, chi non si incarna.

Per questo Nietzsche, in questo più vicino a Cristo di quanto credesse, chiudeva il suo scritto con un invito: «Approvi tu nel più profondo del cuore questa esistenza? Ti basta essa? Vuoi essere tu il suo difensore e il suo redentore? Soltanto un unico e sincero “sì!” dalla tua bocca: e la vita così gravemente accusata sarà assolta». Questo sì pieno alla vita (la conversione è passare da cosa ci aspettiamo noi dalla vita a cosa si aspetta la vita da noi in ogni situazione) così come ci è data trasforma la terra (humus) in campo (homo), dà il possesso di sé che è lo stato e strato d’anima con l’energia per dare vita e non tradire il seme. L’educazione prepara questo «sì» a terra e cielo, trasforma l’origine (ciò che sei…) in destino (…diventalo). Fare questo con ogni ragazzo è liberarlo dalle catene: solo così l’unica vita che ha può diventare la vita unica a cui è chiamato.

Corriere della Sera, 17 marzo 2025 – Link all’articolo e ai precedenti

Una replica a “Ultimo banco 237. Quest’unica vita”

  1. Federica Salvan ha detto:

    Buongiorno Alessandro, sono Federica Salvan che, assiduamente, tenta di comporre degli accettabili commenti dinanzi ai tuoi contributi di alto spessore.
    Non possiedo la maestria di scomporre le parole, di indagare le etimologie come sempre, avviene nei tuoi articoli.
    Quest’ultimo lo sento pienamente mio, oltre che dei ragazzi, ragazze, giovani che cercano e domandano.
    Sì, perché pure io, cerco e domando, chi sono, che cosa mi interessa e coinvolge davvero e seriamente.
    Accade dopo una lunga vita di studi, di incontri, di insegnante sui generis, non cattedratica, ma a ruoli cangianti secondo la Legge 107 del Potenziamento.
    Perseguo una umanità nella persona integra ed integrale con la meta della vita piena, vissuta e rivissuta ogni giorno, specialmente dopo l’episodio di salute fisica accaduto.
    Compongo le fasi del mio cammino in modo intenso, trovando e non smarrendo il significato nell’origine e nel destino.
    Ritengo di avere una vocazione, di essere me stessa, di avere memoria di questo e di adoperare il tempo come bene pari a valore.
    Tante traversie, tante vicissitudini hanno costellato la mia avventura di vita con interrogativi, ma soprattutto con il desiderio principale: essere me stessa con la bellezza della mia persona, dono unico, irriducibile che si confronta nel legame, cha è propensa ad amare, ad amare, ad andare in profondità e a sfidare, docilmente, le prove, gli esami che si verificano. Ciò, avviene con la speranza e la fiducia di me in evidenza i miei talenti, le mie doti senza timore in questa società spesso individualistica, intorpidita, anche frenetica
    Quindi, il campo, la coltura che è anche cultura da colere, darà i suoi frutti e l’Odissea della vita sarà ritorno ad Itaca per custodire questa terra come humus che diventa Cura di me degli altri, altre.
    Grazie, Federica

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