10 settembre 2024

Ultimo banco 210. Elogio del minuto

Il presente ci raggiunge solo se gli prestiamo attenzione, ma spesso siamo troppo distratti. Abbiamo persino inventato la curiosa espressione “tempo reale” per indicare ciò che ci raggiunge il più rapidamente possibile. Eppure reale non è sinonimo di veloce, come crede il nostro mondo di corsa, ma ciò di cui scopriamo la pienezza, andandogli incontro anche lentamente, non a caso contento e contenuto hanno la stessa radice: non si può esser contenti senza contenuto. Solo l’attenzione permette al tempo di essere reale, un secondo diventa un secolo (anche secondo e secolo hanno la stessa radice, secare, tagliare: il tempo, a fette).

Se in un bosco taglio una mattonella di terreno 30×30, spessore due centimetri, trovo in media 1400 esseri viventi. Uno spazio minimo è così pieno di contenuto (vita) da poterci rendere contenti (vivi). Lo stesso vale per un tempo minimo, ma solo se si è attenti. A questo serve la scuola che comincia: a non vivere altrove, ad allenare l’attenzione, a scavare per bene nell’istante (ciò che sta dentro) e nel circostante (ciò che sta attorno) per trovare realtà a 18 carati, e quindi esperienza autentica. “Non pensate al domani perché a ogni giorno basta il suo peso”, è una frase luminosa di Cristo: ogni giornata, se non fuggi, è sufficiente a renderti vivo e magari ricco. Istante e circostantesi incontrano nell’unità di misura della gioia: il minuto. Come?

Minuto è sia l’unità di tempo di 60 secondi, sia un aggettivo per indicare le dimensioni, quindi lo spazio occupato da qualcosa: corpo, pioggia, caratteri, faccende possono essere “minuti”. Lo si dice di una persona attenta ai dettagli: minuta o minuziosa. La minuta era, per i nonni, la versione base di un testo. Scaviamo con l’attenzione, la vanga dell’anima, “nel minuto”: che cosa trovo qui (circostante) e ora (istante)? Comincio io, con studio, che significava in latino desiderio, perché non si può conoscere se non ciò che si ama.

C’è una piccola conchiglia dalle striature bianche e marroni. Viene dalla spiaggia che frequentavo da bambino, ricca di conchiglie a me ormai così familiari che avrei dovuto farci l’abitudine, e invece no. L’ho raccolta quest’estate: mi stupiscono sempre le regolari coste a sbalzo e i disegni a fascia in tutte le sfumature dal marrone al bianco. Mostrano, sin dalla base della catena dei viventi, una regola geometrica della vita che già basta a stupirmi: la simmetria bilaterale. Quella conchiglia è la metà di un’altra uguale. La stessa simmetria del corpo umano, del volto, del cuore. Voglio scavare oltre. Scopro che si chiama acanthocardia tubercolata, nome dato nel 1758 alla bivalve che può avere varie dimensioni ma sempre 18-20 coste radiali. Il nome latino contiene la parola cuore, si chiamano infatti anche cuori di mare, molto comuni nelle spiagge del Mediterraneo e dell’Atlantico nord-occidentale, e con una funzione fondamentale per il fitoplancton delle coste. Appartengono alla famiglia infinita di molluschi bivalvi detti cardiidae: cuori. Sulla mia scrivania c’è quindi un mezzo cuore, metà di una casa costruita con maestria e gusto da un essere i cui fossili datano a 30 milioni di anni di fa, nel periodo geologico chiamato Oligocene, quando si formarono le Alpi e l’Himalaya e si ghiacciò la calotta antartica, tanto che il mare raggiunse il livello più basso nella storia terrestre, facendo emergere passaggi che permisero la migrazione di piante e animali che si ritrovano infatti in continenti diversi. Al confronto della storia di questa conchiglia, la mia, quella dei sapiens, è iniziata un minuto fa. La solita conchiglia da passeggiata racconta una storia millenaria di cui ho solo scalfito la superficie, ma che basta a risvegliare vocazioni, dal geologo al malacologo, ispirazioni, dall’artista allo stilista, meraviglia, all’ignorante attento, cioè lo studente.

Poco sopra c’è lo schermo del computer aperto sulle notizie: domina quella di un diciassettenne che ha ucciso padre, madre e fratello con 68 coltellate. La descrizione mi lascia sgomento ma mi commuovono le parole dei nonni che dichiarano che non lo abbandoneranno mai. In questo frammento ci sono tutte le ombre e le luci del cuore umano, sangue e cura, male e bene. Non aggiungo l’ennesima analisi del dramma, mi ricordo solo che fare l’insegnante è ascoltare i vuoti e i silenzi dei ragazzi, non solo le loro interrogazioni.

Poi in questo “minuto”, a destra, c’è la colonna pericolante dei libri in attesa, dove poc’anzi ne ho poggiato uno giunto in regalo, un “presente” inatteso. Autore, Giulio Busi, titolo, “Giovanni: il discepolo che Gesù amava”. Una storia dell’evangelista che preferisco, rileggo e approfondisco. Il libro vuole smentire la tesi che quello di Giovanni sia il meno affidabile dei vangeli dal punto di vista storico. Infatti il testo mostra che Giovanni conosce benissimo la vita del tempo e in particolare di Gerusalemme nel primo secolo: strade, usanze, sogni, intrighi… Unico apostolo non ucciso dai persecutori del cristianesimo, si trasferirà a Efeso dove racconterà a tanti dell’uomo che gli ha cambiato la vita. Dai suoi ricordi nasce il testo più studiato e commentato al mondo. Io uno che dice di aver toccato Dio sulla Terra lo sento amico, perché ne ho bisogno.

Sollevo lo sguardo dalla copertina e in questo “minuto” c’è anche un acquarello che mi ha regalato anni fa un ragazzo in una scuola. Su uno sfondo scuro una sagoma bianca, in bicicletta, solca una strada, il colore dell’asfalto è quello di un cielo notturno, il cielo sembra in terra, la terra in cielo. Sul petto della figura bianca è accesa una macchia rossa all’altezza del cuore. Geniale nella composizione e bello per dinamismo e colori, tengo l’acquarello sulla scrivania. Quel ragazzo, talento che ho saputo poi esser fiorito, aveva colto l’essenza del mio viaggio artistico ed esistenziale: un esploratore lento, cuore acceso (studio è desiderio), a caccia del cielo in terra. Tutte le volte che lo guardo mi ricordo che ci sto a fare qui.

Il “minuto” finisce solo perché questo “pezzo” finisce, ci sarebbero infiniti finiti da scavare ma mi resta solo il tempo di leggere la massima scritta sul foglietto di un calendario da tavolo, quella di domenica 8 settembre dice: “Concentra l’attenzione su una cosa alla volta”. È vero: quanta grazia ricevuta solo per aver scavato in uno dei 1440 minuti di oggi. Che gioia poterlo fare ancora, e ancora, fino alla fine dei miei minuti. In fondo abbiamo sempre e solo il minuto per vivere, perché il passato è un “minuto” degno d’esser ricordato e il futuro un “minuto” degno d’esser desiderato. Studiare il minuto è il segreto della scuola imminente e permanente della vita senza la quale tutto si disperde nel vuoto, cioè nel non-contenuto, e quindi nello s-contento.

Buona scuola a tutti.

Corriere della Sera, 9 settembre 2024 – Link all’articolo e ai precedenti

Una replica a “Ultimo banco 210. Elogio del minuto”

  1. Susanna ha detto:

    grazie

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