23 gennaio 2024

Ultimo banco 186. Avocado


Nel primo appello dell’anno 2024 ho invitato ciascuno dei miei studenti di quinta al consueto gioco di scegliere una parola per l’anno nuovo. Le parole che ci abitano diventano nell’ordine: pensieri, azioni, carattere, destino, in una parola, carne. Quindi scegliere la parola che deve farsi carne mi sembra essenziale per difendersi dalle parole che la cultura dominante ci impone. Dove c’è il vuoto interiore è lo spirito del tempo a occuparlo, perché abbiamo bisogno di legami con il mondo, ma così rischiamo di accettare i fili di cui cantava Bennato nel 1977: “è stata tua la colpa allora adesso che vuoi/ volevi diventare come uno di noi/ e come rimpiangi quei giorni che eri/ un burattino senza fili/ e invece adesso i fili ce l’hai!”.

Le parole possono essere fili che soffocano, come mostrano i recenti fatti di cronaca, parole dette con superficialità e ampliate da un sistema mediatico vorace e spietato. Quale parola avrebbe guidato ognuno dei miei studenti nell’anno che li porterà nella tappa di vita per cui sono serviti 13 anni di scuola? È stato interessante raccogliere le loro scelte per poterle magari rispolverare lungo i prossimi mesi. La parola è chiamata a farsi vita, ma se la parola che domina la mia interiorità è “successo” la mia vita sarà di un tipo, se è “gioia” sarà di un altro. Quali parole si stanno facendo carne in noi? Ma poi hanno veramente questo potere?

Bruce Chatwin racconta nel libro “In Patagonia” che il missionario anglicano Thomas Bridges per spiegare il vangelo agli aborigeni della Terra del Fuoco compilò un dizionario della lingua Yaghan, popolo di pescatori di quei fiordi. Si rese presto conto che mancavano i concetti astratti di cui aveva bisogno, perché in quella lingua tutto era concreto: la monotonia si indicava con l’assenza di amici maschi; la depressione con la fase vulnerabile del granchio che, perso il guscio, aspetta che cresca il nuovo; pigro deriva da un tipo di pinguino; adultero da un falchetto che svolazza qua e là per scagliarsi poi sulla vittima; il singhiozzo è un groviglio di alberi caduti; la vecchiaia è come le cozze (il loro cibo base) fuori stagione. Fu proprio Bridges a chiamarli “Yaghan” dal nome di un luogo, ma loro si riferivano a se stessi come Yámana che, come verbo, significa “vivere, respirare, essere felice, guarire o essere sano” e, come nome, “persone” in contrapposizione ad animali. Concludeva Chatwin, per spiegare l’assurdità di sottrarli ai luoghi natii: “le associazioni metaforiche che formavano il loro terreno mentale incatenavano gli indios alla loro terra natale con legami che non potevano essere spezzati. Un territorio della tribù, per quanto scomodo, era sempre un paradiso”. Lingua e parole che usiamo ci ancorano a una terra simbolica che è la nostra patria. Come è la terra delle nostre parole? Che patria abbiamo?

Mi è tornato in mente l’articolo in cui Lera Boroditsky, professoressa di scienze cognitive a Stanford, mostra come la lingua modella il pensiero: “Sono accanto a una bambina di cinque anni a Pormpuraaw, comunità aborigena nel nord dell’Australia. Quando le chiedo di indicare il nord lo fa con precisione e senza esitare: la mia bussola conferma. Tornata in un’aula alla Stanford University, faccio la stessa richiesta a un pubblico di eminenti studiosi: chiudere gli occhi e indicare il nord. Molti si rifiutano o non sanno rispondere. Coloro che lo fanno ci pensano a lungo e poi puntano il dito in tutte le direzioni possibili. Ho ripetuto l’esperimento a Harvard e Princeton, a Mosca, Londra e Pechino, ottenendo sempre lo stesso risultato. Una bambina di cinque anni in una cultura può fare con facilità ciò che eminenti scienziati faticano a fare in altre. È una gran differenza nelle abilità cognitive. Come si spiega?”. La risposta sembra essere la lingua: “a differenza dell’inglese, la lingua parlata a Pormpuraaw non utilizza termini spaziali relativi come sinistra e destra. Ci si esprime in termini di punti cardinali assoluti (nord, sud, est, ovest). Anche in inglese li utilizziamo ma solo per scale spaziali più vaste. Non diremmo, ad esempio: “Hanno messo le forchette per l’insalata a sudest di quelle da cena!”, ma in Kuuk Thaayorre i punti cardinali si usano in tutte le scale. Si dirà “la tazza è a sudest del piatto” o “il ragazzo in piedi a sud di Mary è mio fratello”. A Pormpuraaw è necessario rimanere sempre orientati” (Scientific American, febbraio 2011). Questo perché la comunità abita in un territorio dove perdersi è fatale e bisogna sapersi orientare in ogni istante e circostanza. Fuor di metafora, le parole che usiamo ci permettono di abitare il mondo e orientarci nella vita?

Già anni fa Italo Calvino si scagliava contro l’anti-lingua, che non dice le cose con precisione rifugiandosi in perifrasi e approssimazioni che rendono le parole prive di energia e sostanza (avete presente il politichese, o quello che chiamo il “temese”: quando allungavamo i temi per fingere di aver qualcosa da dire?). Scriveva in “Esattezza”: “Mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze… la letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio” (Lezioni americane). Più abbiamo parole precise più mondo vediamo e meno siamo manipolabili.

Credo sia fondamentale allenare l’uso preciso e concreto della parola, ed è quello che chiedo ai ragazzi nella scelta di quella annuale: ne va del loro destino. Ecco alcune delle loro parole: vivere non sopravvivere, resilienza, ambizione, squilibrio, mietitura, fioritura, accettazione, evoluzione, luce, spensieratezza, fuori, paraocchi, avocado… Sono sicuro che quelle che incuriosiscono di più sono le più concrete, per questo ho usato la più strana per titolare l’articolo! Io ho scelto “creazione” che, in una mia personale lingua Yagan, suonerebbe “fare come le api, nutrirsi da buone fonti per fare un buon miele” e se parlassi la lingua di Pormpuraaw starebbe a est, dove sorge il Sole. Avendo sperimentato che nella mia vita c’è tanta gioia quanta creazione, spero che questa sia la parola a incarnarsi, portandone con sé altre come studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità, attenzione, cura, bellezza… proteggendomi da altre ancora come fretta, rumore, approssimazione, pigrizia, invidia, distrazione

E voi a che parola/e vi affidate? Potremmo dedicare qualche minuto a scegliere le cinque più significative e ripeterle ad alta voce. Quella sarà la nostra patria, la nostra bussola, la nostra carne.

Corriere della Sera, 22 gennaio 2024 – Link all’articolo e ai precedenti

9 risposte a “Ultimo banco 186. Avocado”

  1. Patrizia Fabbri ha detto:

    Grazie di cuore!!!!!

  2. Ernesto ha detto:

    Pare che nella lingua Nahuatl la parola “āhuacatl” (avocado) fosse usata come sinonimo o eufemismo per “testicolo”. Per questo motivo mi piace credere che il suo studente la stesse segretamente prendendo in giro dandole del co****ne e la cosa mi fa ridere tanto che ho deciso valesse la pena condividerla qui, magari farà ridere anche lei.

    • Prof 2.0 ha detto:

      Gentile Ernesto, il mio studente ha spiegata la motivazione della scelta a tutta la classe, ed è molto lontana dalla sua interpretazione che offende il mio studente.

      • Francesca ha detto:

        Gentile professore, la sua risposta, anche a provocazioni inutili, la qualifica come l’ educatore instancabile che tutti stimiamo.

  3. Egle ha detto:

    La parola Creazione è molto bella e di grande auspicio!
    Intravedo un legame con la parola concepimento e, quanto al punto cardinale est, un legame con il concetto di nascita.
    Se davvero, come dici, “le parole che ci abitano diventano nell’ordine: pensieri, azioni, carattere, destino, in una parola, carne” … beh, allora credo che, oltre alle parole “studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità, attenzione, cura, bellezza”, quali frutti della creazione, possa aggiungersi anche quella di PADRE!
    Ci avevi mai pensato?
    In bocca al lupo!

    • Prof 2.0 ha detto:

      è il cuore della parola creazione, che è una parola che nasce proprio e solamente nella tradizione biblica, le altre tradizioni usano il verbo “fare”.

  4. Raffaella ha detto:

    Gentile Alessandro, le parole che vorrei incarnare sono tante, molte delle quali le ritrovo in quelle che tu e i tuoi studenti avete elencato.
    Ne aggiungo 2:
    MADRE e LIBERAZIONE.
    Madre, in quanto sento tutta la responsabilità di un Vero IO, di un Dio da aiutare a nascere.
    Liberazione, e chissà che liberando un pezzetto alla volta io possa fare della mia vita un capolavoro, come ha fatto Michelangelo con la sua statua.
    Gentile Alessandro, GRAZIE.
    Raffaella

    • Prof 2.0 ha detto:

      Grazie a te, e buona “incarnazione”

      • Federica Salvan ha detto:

        Sono ancora qui, hic et nunc con il mio vivente, essere viva come Federica Salvan

        Le parole intrecciate e congiunte sono vita come doni da vivere intensamente come si è perché è stata donata da Dio.
        Poi, scrivo persona, suono chiaro della mia presenza unica come valore.
        Ancora Empatia che preciso con sentire, non limitato al dato percettivo, ma animato e premessa al desiderio, altra parola scelta che svela .

        È il gioco delle parole così, ricche in prefissi, suffissi che compongono con la scrittura e fonetica, da sprigionare letizia se ci raccogliamo in quiete con esse.
        Grazie, per tanta comunicazione costruttiva

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