Ultimo banco 143. Permacrisi
Per il dizionario britannico Collins la parola del 2022 è permacrisis (permanent crisis, crisi permanente): «Un periodo esteso di instabilità e insicurezza». Si è imposta all’attenzione mondiale in aprile quando Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, ha detto: «Alcuni dicono che viviamo in un’era di permacrisis: ci muoviamo da un’emergenza all’altra. Solo 10 anni fa abbiamo affrontato la peggiore crisi finanziaria dagli anni ’30, poi la peggiore pandemia dal 1919 e ora la più grave crisi geopolitica in Europa dalla fine della guerra fredda». Qualche ora fa, brindando, ci siamo di sicuro augurati una parola migliore per il nuovo anno. Quale?
Sembrerà paradossale ma la risposta è nascosta proprio dentro permacrisi. “Crisi” era infatti il gesto, descritto nell’Iliade, di separare e scegliere i chicchi nella spiga. La pula finiva in un fuoco (di paglia) e il grano nel pane. Crisi è quindi, non come vorrebbe Lagarde, uno stato permanente di emergenza senza sbocco e a cui siamo fatalisticamente sottoposti ma, come vuole Omero, uno stato di giudizio e impegno permanente: separare l’essenziale dal superfluo nel raccolto (dalla stessa radice di crisi vengono infatti parole come cer-nita, cer-tezza, de-creto, in/es-cre-mento…). Insomma l’attuale stato permanente di crisi è un passaggio necessario al nascere di qualcosa di nuovo. Che cosa?
La crisi permanente è la fine di alcuni aspetti dell’epoca moderna che per sei secoli ha scandito il senso del nostro tempo: se i nostri orologi lo segnano in senso orario è perché così si muove la luce solare su una meridiana nell’emisfero nord, dove fu inventato l’orologio meccanico (se lo fosse stato in quello sud le lancette ruoterebbero al contrario).
Adesso è entrato in crisi permanente ciò che in questo modello di rapporto con il mondo non funziona più:
1. Strappato alla natura ogni potere abbiamo ottenuto quello di autodistruzione: per la prima volta nella storia non abbiamo più potere sul nostro potere. Liberatosi del senso del limite della cultura precedente, da pezzetto di natura (mondo antico) o creatura (mondo medievale) l’uomo si è fatto creatore: non è sottomesso alla natura né riceve il mondo in custodia, ma lo crea con la tecnica.
2. Quest’uomo senza limiti si è paradossalmente ritrovato solo, atomo o individuo (due parole che significano indivisibile), ed ha dovuto costruire i legami sociali con il potere (politico, economico, culturale): la massa ha sostituito il popolo o la comunità.
3. La cultura, cioè l’insieme delle invenzioni per umanizzare la vita in ogni ambito, si è ispirata (la cultura nasce sempre dalla religione, cultura ha la stessa radice di culto) a una nuova fede: il progresso (il meglio è sempre da venire e da fare, più si accelera più saremo felici). Ma l’accelerazione necessaria a estrarre dalla realtà, divenuta miniera, ciò che serve al Progresso è spesso violenza (sfruttamento e inquinamento): la miniera si esaurisce, e noi con lei (la depressione è la malattia del secolo).
La crisi sarà quindi permanente sino a che non trasformeremo questo tipo di rapporto con il mondo. La parola crisi ci aiuta ancora: in greco era anche il culmine di una malattia, oltre il quale o arrivava la guarigione o la fine. La permacrisi sarà salutare solo se cambieremo lo stile di vita che ci ha fatto ammalare:
1. la tecnica è chiamata a mettersi al servizio del “naturale” contro ogni violenza trans-naturale o trans-umana;
2. la massa è chiamata a stringere relazioni autentiche, legami che non sciolgano (la liquidità di Bauman) ma coniughino l’unicità della persona con il tutto;
3. la cultura è chiamata alla cura e non all’esaurimento di ciò che è umano nell’uomo.
A scuola, per esempio, la “permacrisi” c’è da anni. Abbiamo aumentato gli oggetti per rinnovare la didattica (nel culto del progresso è la tecnica che dovrebbe salvarci) ma non siamo riusciti di pari passo a far progredire i soggetti, seguendoli uno a uno per scoprire ciò in cui sono insostituibili per la comunità (la “crisi” della parola individuo potrebbe generare: insostituibile). Se il luogo fatto per umanizzare deprime insegnanti (burn out e precariato) e studenti (malessere e abbandono), va “criticato”. Non si tratta di buttare tutto ma di separare paglia e grano: tecnologia a beneficio dei soggetti (servizio), relazioni generative per scoprire l’insostituibile di ciascuno (comunità), cultura per aumentare l’umano nell’uomo (cura).
Esempi di conseguenze concrete: costruzione di spazi (aule) abitabili e belli, non centrati sugli oggetti (banchi o strumenti digitali) ma sui soggetti (relazioni); ricerca del vero-bello-giusto basata sulla collaborazione e non sulla competizione; continuità didattica per garantire cammini educativi personalizzati nel tempo (ogni ragazzo è speciale, cioè “specie protetta”); sostituire la paura (prestazione) con la curiosità (presenza) come leva dell’apprendimento…
Nel recente G20 a Bali, Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum, dettando la linea d’azione ai potenti del mondo, offriva come soluzione alla crisi… le cause stesse della crisi, contraddicendo i fini (sostenibilità, inclusione, transizione) con i mezzi proposti: “Se consideriamo tutte le sfide possiamo parlare di multicrisi: economica, sociale, politica, ecologica e istituzionale. Ciò che dobbiamo affrontare è una profonda ristrutturazione sistemica del nostro mondo. Il mondo avrà un aspetto differente dopo che avremo completato questo processo di transizione. Governo e imprese devono collaborare per diventare un pesce veloce, perché nel mondo di oggi non si tratta più del pesce grande che mangia il pesce piccolo, ma del pesce veloce che mangia quello lento”. Ancora una volta un’idea di rapporto con il mondo “moderna” e quindi ormai vecchia: imporre dall’alto una ristrutturazione operata da governi e imprese (cittadini non pervenuti) mangiandosi gli uni gli altri grazie alla velocità.
È appena finito un secolo che ha mostrato i limiti di questa costruzione del mondo (definisco la mia identità attraverso lo scontro e lo sfruttamento dell’altro, mangiandolo): guerre nate da miti nazionalistici; malattie e danni ecologici scaturiti da esperimenti e sfruttamento senza limiti; eccidi di massa ispirati da ideologie belliche in cui la persona non conta nulla; ingiustizie sociali generate dall’accumulo di risorse nelle mani di pochi o dallo sfruttamento di categorie più fragili… Questi frutti mortiferi mostrano ciò che manca all’emisfero in cui gli orologi segnano il tempo solo in un senso, ma che purtuttavia ha il merito di averli inventati.
Il tempo ha anche un “altro senso”, non mi riferisco solo alle istanze che vengono dal sud (geografico e sociale) del mondo ma a un “significato” diverso: custodire e aumentare la vita di tutto e tutti. La permacrisi può diventare nascita: non finisce il mondo ma un mondo, perché ne nasca uno più autentico. Sta a noi decidere se, nel nostro ambito di azione, far venire al mondo questo mondo nuovo o lasciarci paralizzare dalla paura (non resilienza ma resistenza, cioè ri-esistenza, esistenza nuova).
La mia parola per il 2023 è quindi “permacritici”: svegli e attenti a separare la paglia dal grano in ogni cosa. Buon inizio (di un mondo nuovo) a tutti!
Corriere della Sera, 2 gennaio 2023 – Link all’articolo e ai precedenti
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