Ultimo banco 132. Il nostro DNA
Il Nobel per la medicina 2022 è andato a Svante Pääbo, fondatore della paleogenetica, scienza che legge, da reperti antichissimi, il DNA dei nostri antenati. Il biologo svedese è riuscito infatti a ricostruire la parentela tra le specie del genere Homo (Uomo), di cui oggi è rimasto solo il Sapiens (che sa), nel cui codice genetico c’è una piccola percentuale di DNA della specie Neanderthal e Denisova (specie scoperta da Pääbo). Accostare le origini di quella cosa grandiosa e tremenda che è l’uomo aiuta a capire che significa essere uomini: che il Sapiens sia il solo sopravvissuto del genere Uomo e non abbia generato altre specie è già una risposta. Ma andiamo per gradi. Il genere Homo è apparso più di due milioni di anni fa in Africa e si è diffuso sul globo differenziandosi in specie. Il Sapiens è comparso in Africa non più di 300mila anni fa ed è poi migrato (tra i 100 e i 65mila anni fa) unendosi e scontrandosi con specie stanziate altrove, come il Neanderthal, in Eurasia, e il Denisova, in Asia sud orientale. Ma che cosa ha permesso alla scienza di dire: qui compare un essere che possiamo chiamare Uomo? La novità sta nel fatto che questo essere “sa” di essere: ha coscienza di sé e del mondo, come testimonia uno dei più antichi reperti, in una grotta argentina, una parete con delle mani dipinte, come dire: “Eccomi qui, sono io”. E chi sei, tu?
La novità uomo, rispetto agli altri primati, è segnalata da alcuni fattori: tecnica, sepolture, accoppiamento frontale, linguaggio simbolico (arte). L’uomo è uomo perché ha e fa cultura, cioè tutto ciò che crea per umanizzare la vita, perché, a differenza dell’animale che ha già tutto scritto nel suo istinto, l’uomo diventa uomo. Come? Risolve problemi con la tecnica non essendo dotato, come gli animali, di artigli, zanne, pelo… ma di ingegno; è capace di trascendenza (seppellisce i simili); si accoppia guardandosi negli occhi; si relaziona con le cose in modo non solo utilitaristico (non si limita a mangiare gli animali, ma li dipinge). Questo per quanto attiene al genere Uomo. Ma perché, tra le specie di Uomo, il Sapiens è l’unica sopravvissuta? Se il Neanderthal era più forte, organizzato e abile, perché si è estinto?
Molti studiosi rispondono dicendo che era timoroso e sedentario: non migrava e non osava attraversare il mare. Invece il Sapiens è andato ovunque: nel giro di qualche migliaio di anni dall’Africa lo troviamo in Australia! Era audace, se non folle. Il Sapiens è sopravvissuto perché, di fronte all’ignoto, rischiava, un motivo contrario al buon senso: non si metteva al sicuro ma a rischio. Ci ha salvato l’inquietudine: siamo e diventiamo vivi per inquietudine e non per abitudine. Non ci accontentiamo ma cerchiamo, esploriamo, scopriamo. Siamo un motore di ricerca, il desiderio, che non ha pace, ma la cerca. Se questo motore si spegne, ci estinguiamo, che vuol dire “ci spegniamo”, perdiamo il fuoco della vita. Evolutivamente ci ha salvato un inquieto vivere e non un quieto sopravvivere, allora come oggi. Quando intuii, a 17 anni, che volevo fare l’insegnante, molti mi dicevano: “non rischiare, c’è già lo studio dentistico paterno, sii realista o sarai un morto di fame…”. Per fortuna non ascoltai le voci Neanderthal, e mi fidai della voce Sapiens, lo spirito creativo dentro di me, che mi diceva: “Sarai vivo di fame!”. Quella voce mi ha salvato: la voce del vivere arrischiato, che lascia la sicurezza e attraversa il mare (dovevo lasciare la Sicilia e andare, come diciamo noi, nel Continente). E così non mi sono “estinto”, spento. Purtroppo però da quello stesso slancio del Sapiens viene anche la sua passione per la distruzione (forse le altre specie sono state “estinte” dalla sua violenza) che dà un’ebbrezza simile a quella creativa, ma a spese della vita: non genera il nuovo ma lo divora, come il dio Cronos mangia i figli. Ieri come oggi, il Sapiens o fa la vita dandola o si dà la vita togliendola, diventando Rapiens: l’uomo che afferra (da quel verbo viene l’inglese rape, stuprare). Lo esemplifico con il racconto del primo traumatico giorno di superiori narratomi da una studentessa. Alla prima ora entra una professoressa, guarda il gruppo assai numeroso di ragazzini, impauriti dall’inizio del percorso liceale, e dice nella lingua del controllo che dà l’ebbrezza del potere a chi la usa: “Siete troppi, vi ridurremo!”. La lingua del rischio, che è creativa, dà la stessa ebbrezza ma richiede più impegno, avrebbe detto: “Siete tanti, ma voi e io ce la metteremo tutta per trovare i modi di andare avanti insieme”. La seconda frase genera, la prima de-genera.
Del racconto di Genesi dimentichiamo che gli alberi dell’Eden sono due: quello della conoscenza del bene e del male, precluso all’uomo a significare che la sua condizione è di creatura e non di creatore (la vita non te la sei data tu); e quello della vita, a sua totale disposizione, a indicare che quella condizione di creatura crea una relazione (la vita ti è donata da Qualcuno). Kafka ha scritto che la condizione ferita dell’uomo dipende non solo dall’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma anche dal non aver mangiato quello della vita. L’uomo, scopertosi mortale, deve procurarsi la vita con le sue forze. E allora che cosa è che ilSapiens sa? Che morirà, a differenzia dall’animale che vive in un eterno beato presente, come scrive Leopardi nel suo Canto notturno. Questo “saper la morte” è una condanna o una risorsa?
Il grande scienziato Linneo, a metà del 1700, per catalogare i viventi inventò la classificazione a due nomi (genere e specie) e per l’uomo approdò a Homo Sapiens solo alla decima edizione del suo Sistema della natura. Nelle precedenti edizioni scriveva Homo Nosce Teispum, genere Uomo, specie Conosci te stesso: traduzione latina del monito scritto sul tempio del dio Apollo a Delfi, per ricordare all’uomo, che si recava a interrogare il dio attraverso la sua sacerdotessa, il giusto atteggiamento: sei un mortale, pesa le tue parole. La cultura ebraica e quella greca concordano, da prospettive diverse, sulla posizione dell’uomo nel cosmo. Socrate sceglierà proprio questa frase del tempio di Apollo per sintetizzare il senso dell’esistenza: ogni uomo è chiamato a riconoscere in sé il divino, il daimon, voce immortale che ispira e guida l’azione dell’uomo. Cristo, criticando i gesti ipocriti di coloro che pregano per farsi vedere dagli uomini, dice “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6). La camera segreta (fisica e del cuore) è dove il Padre dà se stesso a chi lo cerca. Agostino, quattro secoli dopo, ne farà un cammino esistenziale: “Ritorna in te stesso, la verità risiede nell’uomo interiore”. Persino nella stanza dell’Oracolo del film Matrix c’è un’insegna con la scritta in latino (Conosci te stesso), invito al protagonista ad accettare la rischiosa chiamata contro le illusioni oppressive create dal Programma, anche a costo della vita, perché non c’è vita senza verità. Chi sei? Qual è il tuo destino?
Essere Sapiens è essere “Conosci te stesso”, cioè accettare la propria finitezza, e non trasformarla in rabbia distruttiva ma in creatività: imperfezione, incertezza, inquietudine sono sinonimo di ricerca e non di paralisi, di audacia e non di paura, di viaggio e non di violenza. Per noi stare nella vita è entrare in relazione generativa con ciò che ci supera, fino a scoprire il divino in noi. Nella mia vita quando ho cercato di eliminare l’inquietudine, non solo non ci sono riuscito ma ho perso occasioni di crescere e di creare (due verbi che originano dalla stessa antica radice, e che danno lo stesso frutto: l’uomo), perché sono rimasto bloccato dalla paura o, peggio, ho cercato la pace nell’illusione di non morire che dà il potere. Invece quando ho deciso di accogliere quell’inquietudine non come debolezza ma come segno della presenza del divino in me, si è sempre trasformata in motore creativo e di crescita: energia per correre il rischio. Rischiando la vita, cioè portandomi avanti con il fatto che dovrò morire, ho scoperto come si vince la morte trovando più vita, come sembra sia proprio del Sapiens. Altrimenti mi sarei estinto, in anticipo, in vita. Non credo sia un caso che molti eroi del passato di culture diverse, da Ulisse a Sinbad, siano uomini che, per vivere, hanno vinto il mare. Ognuno ha il suo e il coraggio per affrontare l’ignoto lo trova nel suo DNA di Conosci te stesso.
Un’educazione che rimette al centro il nostro essere Sapiens, non solo non nasconde ai ragazzi la fatica della condizione di uno che sa che morirà (o rischi o ti estingui), ma svela anche la terribile ambiguità di quel rischiare per riuscire a non morire (o crei altra vita o divori quella che c’è). A noi la scelta.
Corriere della Sera, 10 ottobre 2022 – Link all’articolo e ai precedenti
Caro Alessandro, forse ti interesserà sapere che alcuni Paleoantropologi – Dunbar e Bickerton (1996), Lieberman (2006), Tattersall (2008) – così come alcuni paleoeconomisti come Horan et al. (2005, 2008) hanno formulato l’ipotesi supportata da una serie di ritrovamenti fossili (che testimoniano la cosiddetta “discesa della laringe” che a sua volta favorisce la nascita del linguaggio articolato) che l’interazione verbale e il cosidetto “verbal grooming” (dove grooming va oltre il semplice significato di spidocchiamento/toeletta) ed indica tutte quelle cure che i mammiferi (ed in particolare i primati) si prestano l’un l’altro (in particolare il grooming principale è proprio del raporto madre-figlio/a) siano stai il fattore cruciale nell’emergenza di un vantaggio comparato evolutivo dell’ Homo Sapiens nei confronti dell’ Homo Neanderthalensis. quindi oltre ad essere più propenso al rischio e all’avventura, l’Homo Sapiens parlava, raccontava storie e soprattuto si prendeva cura di altri attraverso la parola. penso che la cosa, per te, ma per tutti noi, sia particolarmente interessante e stimolante
Interessantissimo. Ti ringrazio Mario!