Ultimo banco 103. I capodanni ritrovati
«Avevo vissuto il 1° gennaio dei vecchi, che in quel giorno differiscono dai giovani non perché non ricevono più nessun regalo, ma perché non credono più all’anno nuovo. Io di regali ne avevo ricevuti, ma non quelli — i soli — che mi avrebbero fatto piacere: un messaggio di Gilberte». Sono le parole con cui il narratore della Ricerca del tempo perduto di Proust descrive un capodanno di attesa delusa. La speranza che il suo amore per mademoiselle Gilberte Swann fosse corrisposto lo aveva portato, poche ore prima dell’inizio del nuovo anno, a scriverle una lettera in cui le chiedeva di ricominciare da capo la loro amicizia.
Ma quando, quel giorno, sente il vento tipico di quella stagione deve ammettere che si è voluto ingannare: «Ebbi la sensazione e il presentimento che il giorno di capodanno non fosse un giorno diverso dagli altri, che non fosse il primo d’un mondo nuovo nel quale avrei potuto, con possibilità ancora intatte, rifare la conoscenza di Gilberte come ai tempi della Creazione, come se ancora non esistesse alcun passato, come se fossero state abolite le delusioni che di tanto in tanto mi aveva inflitte: un nuovo mondo nel quale niente del vecchio sarebbe sopravvissuto… niente, tranne una cosa: il mio desiderio che Gilberte mi amasse».
Anche a noi succede lo stesso all’inizio del nuovo anno: proiettiamo, invano, su un cambio di data il desiderio di una vita nuova. È solo un’illusione consolatoria o c’è del vero per la vita di tutti?
La pagina di Proust risponde con precisione. Capodanno è un’illusione, ma non lo è ciò che il cuore desidera: «Capii che se il mio cuore voleva che si rinnovasse quell’universo che non lo aveva soddisfatto, era perché lui, il mio cuore, non era mutato, e mi dissi che non c’era ragione perché fosse mutato quello di Gilberte; la nuova amicizia sarebbe stata identica alla vecchia, così come nessun fossato separa dagli altri i nuovi anni».
Festeggiare un nuovo anno è un rito per custodire il motore del cuore umano: la speranza. In che cosa spero? Come me ne prendo cura? Sono domande equivalenti a: quanto sono vivo? Rimaniamo giovani e possiamo chiamare capodanno ogni giorno in cui coltiviamo la speranza, come fa il narratore scrivendo all’amata: «Ero pur sempre giovane, se avevo potuto scriverle un messaggio con il quale speravo, esprimendole i sogni solitari della mia tenerezza, di suscitarne di simili nel suo cuore. La tristezza degli uomini che sono invecchiati è di non pensare nemmeno a scrivere lettere così, avendone constatato l’inutilità».
Vecchio è chi smette di sperare, perché chi non spera non agisce e non crea, neanche una lettera.
Il capodanno è il tentativo di convincersi che «andrà tutto meglio», ma la storia recente ci ha insegnato che questo è un placebo alla paura. Invece ciò che ci serve è un rapporto tra futuro e presente che renda il presente carico di futuro: Agostino diceva che la speranza è «la presenza del futuro», solo così il presente diviene luogo dell’azione che ringiovanisce. Non parlo di una speranza fatta di generici buoni propositi, ma l’azione concreta che, nei nostri limiti, ferite e condizioni, è alla nostra portata, rende la vita più viva e argina la paura.
Speranza e ottimismo sono infatti diversissimi: la prima è attiva e mirata al concreto, il secondo passivo e generico. L’ottimista ama l’umanità, chi spera ama chi ha accanto. Il narratore di Proust non è un ottimista ma spera, sa di essere giovane non perché si lascia illudere dal rito del capodanno, ma perché non rinuncia a fare il possibile: scrivere la lettera. Il movente dell’azione non è il successo ma il senso dell’azione stessa, che libera dalla paralisi di chi «invecchia» a furia di ripetere che tanto «è tutto inutile», per giustificare così la sua resa o paura.
A inizio anno possiamo chiederci quali sono per noi «le lettere» che ci rendono giovani: quel gesto, anche piccolissimo, che ci rinnova, perché è un atto di fiducia nella vita così come si offre. Se la speranza è la presenza del futuro, c’è tanto presente (vita viva) in noi, quanto c’è di speranza in atto. Qual è la cosa che oggi posso fare per sperare? Approdo al 2022 molto provato, ma so che per sperare devo curare l’appello dei miei alunni, volto per volto, nome per nome, anche se le mascherine lo fanno sembrare inutile. Lì si gioca la mia giovinezza. Per sperare devo scrivere ogni giorno qualche riga di un libro che mi impaurisce per ciò che scoprirò, anche se scrivere sembra inutile. Lì si gioca la mia giovinezza. Per sperare devo trovare il tempo per camminare nella natura, pregare, leggere, fare sport, inventare cose nuove con un amico, cucinare bene per qualcuno o anche solo per me, far giocare mia nipote, prendermi cura di chi amo e di chi ne ha bisogno… Lì si gioca la mia giovinezza.
Solo così ogni giorno diverrà capodanno e 2022 sarà il nome di 365 giorni, che non mi avranno fatto invecchiare, ma ringiovanire. Crescere, non morire.
Buon 2022 di capodanni!
Corriere della Sera, 2 gennaio 2022 – Link all’articolo e ai precedenti