Ultimo banco 58. Il pranzo di Natale
«Dobbiamo stabilire il menù di Natale». Era una battuta classica nella mia famiglia, pronunciata nei momenti meno adatti: il 26 dicembre quando ci stavamo ancora riprendendo dalle fatiche culinarie del giorno prima, il 25 giugno perché avevamo solo un semestre per prepararci, il 15 agosto perché stavamo perdendo tempo in altri pranzi invece di occuparci dell’Unico Grande Pranzo, che coinvolgeva tutti i parenti (famiglia siciliana…), ognuno dei quali doveva contribuire alla grande sinfonia di sapori, seguendo docilmente chi dirigeva l’orchestra con piglio sicuro: mia madre. Quest’anno il pranzo di Natale sarà in tono minore, ma rimane fermo che almeno in questa occasione il cibo debba essere arte e grazia, perché noi umani non stiamo a tavola solo per nutrirci ma per le relazioni che stringiamo a tavola. E in un’epoca in cui siamo ossessionati dal risparmiare tempo, le feste possono restituirci un rapporto buono proprio con il tempo e con le cose, e quindi con le persone. Per questo mi è ritornato in mente Il pranzo di Babette della scrittrice danese Karen Blixen, un piccolo capolavoro che racconta che cosa sono il cibo, la grazia, l’arte e la civiltà, attraverso un Unico Grande Pranzo.
Babette Hersant è una cuoca francese in fuga da Parigi a causa della rivoluzione durante la quale il marito e il figlio sono stati uccisi. Trova rifugio in uno sperduto paesino norvegese di poche anime, come governante di due sorelle nubili, cresciute nel gelo della natura e nel rigore della religione luterana della comunità fondata dal padre, per la quale il cibo è funzionale solo a nutrirsi e il corpo una bestia da tenere a bada. Babette crede in un Dio diverso, che si è fatto carne ed è venuto tra gli uomini con un corpo come il nostro: il suo primo segno pubblico è stato infatti, quasi costretto dalla madre, trasformare acqua in ottimo vino proprio durante un pranzo… Il motto di Karen Blixen era «a Dio piace scherzare»; e un Dio, che fa vino superlativo per gente già alticcia, ha buon umore oltre che buon gusto. Babette trascorre dodici anni insieme alle due austere sorelle, quando le giunge la notizia che ha vinto una lotteria alla quale un suo parente la iscrive ogni anno da quando è andata via, nella speranza che possa tornare: riceverà una somma favolosa. Le sorelle sono terrorizzate: perderanno la loro amata governante e amica. Babette chiede di poter preparare, in assoluta libertà, un pranzo di saluto per tutta la comunità, per il centenario della nascita del suo fondatore. Le due donne sono preoccupate per questo eccesso ma, essendoci di mezzo la memoria del defunto padre, concedono il permesso, a patto che nessuno degli invitati, durante il pranzo, commenti i piatti serviti. Dalla Francia arriva una nave con tutto ciò che Babette, per giorni, trasformerà in grazia, arte e civiltà: non si dice forse «ogni ben di Dio»? E così, durante il pranzo, gli abitanti del paesino provano sapori curati e nuovi e i loro cuori, induriti dal gelo del clima e delle loro relazioni, finalmente si sciolgono. Scoprono con stupore che spirito e materia non sono nemici, perché Dio stesso si è fatto uomo, proprio in quel primo Natale che ci regala ogni anno il tempo necessario per «sostare» e curare le relazioni: la festa è in fondo uno «spreco» di tempo, che dà il senso di gratuità di cui hanno bisogno le persone per sentirsi amate, perché amare è proprio donare il proprio tempo a qualcuno, senza rivolerlo poi indietro. Babette sottrae il cibo alla pura e semplice necessità di nutrirsi e lo trasforma in dono: calorie e calore, sapore e sapere diventano un’unica realtà.
Alla fine arriva la fatidica domanda: quando partirà? Babette risponde che ha speso tutto il premio della lotteria per quel pranzo e che ha deciso di rimanere con loro. I presenti, esterrefatti e sopraffatti da quello sperpero e da quella grazia — bellezza gratuita — chiedono perché ha deciso di rimanere povera e lei risponde: «Io sono una grande artista: un grande artista non è mai povero». Se a Dio piace scherzare allora gli piacciono gli artisti del quotidiano come Babette, perché ci sorprendono con la grazia delle loro opere, ridonandoci un mondo in cui le cose non devono essere per forza utili e il tempo non deve essere a tutti i costi accelerato e ottimizzato, ma semplicemente vissuto e donato, perché gli altri possano fermarsi a riprendere fiato. Sarebbe bello prepararsi come Babette a questo Natale (il titolo originale del racconto del 1950 era La festa di Babette e ne esiste anche una bella versione cinematografica del 1987), curando dettagli gratuiti, da veri artisti, «sprecando» tempo per e con qualcuno, i pochi con cui potremo festeggiare, in modo da dire, nei fatti: che altro c’è mai da fare se non stare qui, insieme, assaporando i minuti e i doni della vita?
Corriere della Sera, 14 dicembre 2020 – Link all’articolo e ai precedenti
Ho visto il film ed è bellissimo. Leggendo mi sono ricordata dei mie Natali da bambina. Mia mamma e le mie zie preparavano la lista della spesa una settimana prima, era un vai e vieni anche delle vicine di casa. Allora pochi avevano il forno in casa e mia mamma era l’unica nel quartiere ad avere il forno a pietra, la vigilia era una festa di odori e sapori si preparavano le basi per i dolci. Il giorno di Natale venivano tutti ad infornare le varie teglie, con dentro cibi semplici. In tutto questo io sentivo nell’aria una gioia immensa, un donarsi le cose, uno scambio di battute e di sorrisi. E poi il pranzo dalla nonna tutto insieme, io siciliana. Questo Natale siamo soli, io e mio marito, i figli tutti al nord non sono scesi. Va bene così! Un caro saluto e grazie della bella lettura.