Ultimo banco 25. Elogio dell’estremismo
«Ci avete rubato il futuro»: quante volte negli ultimi tempi abbiamo ascoltato questo atto di accusa da parte dei ragazzi. C’è del vero in uno slogan che va bene sin da quando Cronos divorava i figli? È il futuro che gli abbiamo scippato o altro? Dopo vent’anni di docenza posso dire, contraddicendo il luogo comune che li definisce più precoci, che i ragazzi maturano sempre più tardi. Perché? Per molti dipende dal fatto che le nuove generazioni non hanno vissuto guerre e povertà come i loro nonni. Ma che cosa ci manca di quelle esperienze «estreme» di cui, ovviamente, facciamo volentieri a meno? Estremo è un superlativo derivato dal latino ex, fuori. L’estremo è il «fuorissimo», il confine col totalmente altro, dove possiamo ri-conoscere (conoscere di nuovo) noi stessi, perché il limite, come in matematica, definisce il valore di qualcosa: occorre mettere i ragazzi in pericolo (stessa radice di esperienza) portandoli nella Terra del Fuori. Senza esperienze «estreme» la maturazione si ferma, il desiderio muore, l’io si disperde. Ma oggi possiamo ritrovare «l’estremo» senza che se lo procurino loro (da qui nasce l’impressione della precocità) dove è solo apparente ?
Qualche giorno fa è morto il grande umanista George Steiner, uno dei maestri verso cui mi sento debitore perché mi ha salvato dalla mancanza di realtà respirata in molte aule scolastiche e universitarie. In particolare con Vere presenze: un libro-accusa contro quella ideologia che ha sostituito l’esperienza «estrema» del bello con commenti e paratesti, rinunciando all’incontro diretto con le opere. Sostituito da letture antologiche e ideologiche, il testo diventa un pretesto per dettare cosa devo pensare di qualcosa e non un’occasione per spiazzare il mio modo di pensare. Mi batto da anni per la lettura integrale e ad alta voce: meno manuali inutilmente costosi e più classici. Se ne scegliessimo anche solo uno l’anno, ogni studente, da 6 a 18 anni, leggerebbe, come si deve, una dozzina di libri fondamentali. Abbiamo barattato la realtà con le informazioni: sappiamo poco di tutto, ma non sappiamo vivere meglio, perché l’arte di vivere dipende dalla ricerca della verità non dal numero di informazioni immagazzinate. Se i docenti di alcune discipline leggessero agli studenti un libro all’anno, farebbero maturare quello che chiamo io-resistente. Al contrario l’io che pronuncia se stesso su Facebook e Twitter, che annuncia se stesso su Instagram, che rinuncia a se stesso nel flusso di TikTok… non cresce ma deperisce, perché consuma sempre e solo se stesso. Dobbiamo portare i ragazzi dove la realtà è «estrema»: da un classico a una mensa per i poveri, dalla cima di una montagna alla domande sul destino (morte, Dio…) e tutte quelle cose in cui la realtà de-finisce l’io perché lo mette di fronte al suo limite. Non dobbiamo proteggerli dai faticosi incontri con la vita, ma anzi dare occasione all’appuntamento. L’ho visto fare la settimana scorsa a mille studenti, radunati a Bologna da tutta Italia, per le Romanae disputatiotiones, un convegno (inventato da un docente di filosofia) al quale ragazzi del triennio si preparano per un anno per sfidarsi «filosofando» su un tema (quest’anno «Linguaggio e mondo: il potere della parola»). Questi studenti, guidati dai loro maestri, vogliono fare più scuola, praticando la disciplina nata proprio dal patto tra parola e mondo: la filosofia (sostituita oggi dalla storia della filosofia). I primi filosofi interrogavano la realtà per cercare la verità e la felicità: era un’arte di vivere. Nell’introdurre il convegno ho detto ai partecipanti che la parola ha potere solo quando nasce dal silenzio che segue alla resa di fronte alla realtà «estrema», quella che ci sovrasta, non solo con la bellezza ma anche con il dolore, la morte, il male. Sono i momenti in cui resistere e cercare il senso, senza scappare: solo così la parola non tiene lontana la realtà, sostituendola con le chiacchiere fatue di ideologie e moralismi senza vita, ma, coraggiosa, la custodisce per raccontarla. I ragazzi vogliono indietro la realtà non il futuro, anche perché il futuro nasce sempre dal faccia a faccia con il limite fatto di passato e presente.
Steiner racconta nella sua autobiografia, Errata, che il suo futuro maturò a sei anni, quando il padre prese a narrargli l’Iliade: la traducevano insieme e ne imparavano a memoria dei passi che non lo lasciarono mai più. Incontrare la realtà provoca sempre una re-azione, un agire nuovo: «Leggere Platone, Pascal, Tolstoj significa entrare in una vita nuova» scrive l’autore. I ragazzi hanno bisogno del nostro estremismo per incontrare ciò che non dà loro ragione, ma chiede ragione a loro, li fa re-agire. Liberiamoli, come papà Steiner col figlio, dai miraggi dell’io e lanciamoli nel «fuorissimo», dove l’io trema, ri-conosce se stesso, prende posizione, si fa carico del mondo: diventa vivo.
Corriere della Sera, 24 febbraio 2020 – Link all’articolo e ai precedenti
Sono Federica, insegnante,di Rovigo, laureata e studiosa di Filosofia; ho scritto ivi, a più riprese ed anche qualche missiva, caro Professore.
Collaboro e partecipo a Botteghe di Filosofia, collegata a Romanae Disputationes fondate dal Professore di Bologna, cui alludeva.
Volevo scrivere qualche nota dopo la lettura del contributo sul Cantico dei Cantici,ma Sabato 22, giorno precedente l’ inizio della sospensione di inizio di Quaresima , giunse la notizia del contagio a Vo’ Euganeo in Veneto e da li’,ho pensato ad altro fino ad ora.
Le scuole sono chiuse fino al primo Marzo e si segue la situazione con ragionevolezza e solidarietà.
Quello che Lei ha scritto sul Cantico fa sovvenire il presagio di Eternità, qui, in Terra,non realtà impalpabile: Eros umano, incarnato in agape della salvazione cristologica nel numinoso Mistero.
Ha delle parole, delle frasi nel dialetto ellenico che fanno sussultare per un sentire irrefragabile.
Il logos, parola, discorso, ragione che “leghein”,connette,lega struttura,plasma, narra,descrive la realtà, aderendo ad essa e non deformando la, con cura.
Il tema concerne la Bottega di Filosofia di questo anno ed io penso di soffermarsi sul valore di senso concreto, connotativo della parola, nel testo finale che dovrò produrre come ricercatrice del Corso.
Steiner mi addestra sul significato della parola ” maestro”,colui, colei che è “magis”, di più e che deve condurre ad un’ arte educativa sopraffina che si adagia, non con torpore, ma solerzia.
I new media possono ingannare, abbagliare, ma il baluginio è passività e distrazione da me, vivente in bellezza.
Grazie,nel cammino e- stremo di E- ducazione che sprigiona e deborda, sporge, in una Ontologia eccedente: scoprire il sovrappiù che soggiorna ed interroga in modo radicale.
Io chiedo sempre agli educandi, di dare ragione e di curare la parola, con la elezione e la decorazione.
Mai sia ostile, nemica,ma fraterna e vicendevole in un tessuto umano come nel “Manifesto parole non ostili”, cui partecipo con Trieste.
Fraternamente, Federica e buon cammino quaresimale, cancellando quella epidemia esiziale di deviazioni cognitive, cui ci vuole anche richiamare la epidemia fisica, in atto del corona virus
L’immagine correlata all’ articolo mi riporta alla mente “La beata ignoranza”, uno dei carri allegorici del Carnevale di Viareggio.
Al centro troviamo il centauro che, con la scure in pugno, cerca di abbattere pile e pile di libri. Il centauro diventa simbolo di dilagante ignoranza e di superficialità del sapere odierno. Ignoranza diversa da quella socratica, di segno opposto. L’ignoranza di segno socratico, infatti, implica consapevolezza dei propri limiti cognitivi. L’ignoranza del centauro è collegata alla protervia di chi vuol azzerare tutta la cultura sedimentata nel corso del tempo, un voler permanere nell’ignoranza, quasi come se fosse un vanto.
Oggi è cambiato il modo di concepire la cultura : anni addietro si faceva opera di scavo e ci si concentrava su un argomento. Oggi si tende a fare surfing: non si approfondisce più un argomento o pochi argomenti, ma si spazia in vari campi del sapere in maniera superficiale, frattalica, discontinua.
Il problema dei problemi è che la società non abitua più al pensare e questo stato di cose si riflette anche sulla didattica.
Studiare per pensare e pensare per vivere.
“Dieci (possibili) ragioni per la tristezza del pensiero” è stato, purtroppo, l’unico libro che ho letto di Steiner, ma mi ha aiutata molto nella comprensione della malinconia associata al pensiero, una malinconia costruttiva, propedeutica alla creatività.
Il sapere offerto dalle istituzioni educative ha il sapore di un sapere dimidiato. Basta confrontare un testo (di qualsiasi disciplina) di dieci, vent’anni fa, con uno di oggi. C’è da rimanere sconcertati. Qualche anno fa, i libri erano voluminosi, c’erano poche immagini e tante informazioni. I testi scolastici di oggi sembrano quasi riviste patinate, tanti colori, tante immagini, poche nozioni. È giusto essere contrari al nozionismo vuoto, ma quello che succede oggi non rende onore all’affermazione di Edgar Morin : “meglio una testa ben fatta, che imbottire la mente di tante nozioni”. Oggi vedo poco di tutto : poche nozioni e poca realtà. Conosco molti docenti scandalizzati dai libri di testo odierni. Parlo anche di docenti laureati in tempi recenti. Tutti lamentano una cultura impoverita, “tagliata”, fatta davvero a pezzi.
Oltre a questo dobbiamo aggiungere un altro problema : il numero di ore per materia.
Non è possibile che, ad esempio, al Liceo delle Scienze Umane opzione economico – sociale, vengano dedicate solo tre ore all’insegnamento di Scienze Umane. Non parliamo poi delle due misere ore riservate alla Filosofia.
Diventa difficile in questi casi elaborare un progetto di ampio respiro. Il respiro rimane corto : quello che separa l’inizio dell’ora di lezione dalla fine.
Concludo con una citazione tratta dal libro “L’Italia dell’ignoranza” di Graziella Priulla: “Le modalità di trasmissione del sapere – in una spirale perversa – sono mutate anche ai livelli superiori degli studi. I manuali – anche quelli dei grandi editori – sono tarati ormai sui modelli dei corsi di laurea triennali, sulla loro brevità e sul loro difficile impegno di garantire una formazione minima in molte discipline. Si moltiplicano collane fatte di libri all’incirca di cento pagine, piccolo formato, caratteri grandi”.
C’è un virus che temo in particolar modo: quello dell’ignoranza.
Sarebbe entusiasmante poter frequentare una scuola come la sogna lei, caro professore, che proponga per tutte le materie una conoscenza esperienziale e creativa utile per saper vivere.
Quando alle superiori lo studente si trova, durante l’ora di matematica, per la prima volta, davanti alla “illeggibile” definizione di limite, di solito è portato a pensare di essere arrivato “al proprio limite”. Quel momento potrebbe essere occasione per l’insegnante di mostrare al giovane come non arrendersi, inserendo l’argomento in un contesto storico- filosofico lavorando in modo anche interdisciplinare con i colleghi di altre materie. Invece cosa accade? Il giovane più volenteroso impara a leggere i simboli che ne costituiscono la definizione nel linguaggio scientifico, impara anche scriverla e intanto acquisisce le regole pratiche per saper fare anche benissimo il calcolo dei limiti senza però avere coscienza di cosa stia realmente facendo. E’ un peccato non dar modo di capire un concetto sì difficile ma affascinante quanto fondamentale. Sarebbe bello far cogliere a tutti la finezza, l’eleganza della sua formulazione sintetica e rigorosa che raccoglie in una riga lo studio di grandi menti che dalla Grecia antica fino a Cauchy e Weierstrass ci hanno lavorato.
Il limite matematico non indica un confine, è una “tendenza a”, non è un punto di arrivo, non è una conclusione, è uno strumento efficace d’indagine in un intorno per capire un comportamento, è un processo di “sfioramento impercettibile” ad un valore finito o infinito.
Oggi siamo sommersi dalle informazioni che provengono da ogni direzione ma la conoscenza esiste se una mente è in grado di trattenere informazioni, rielaborarle alla luce dell’esperienza e utilizzarle. Inoltre correre rapidamente da un argomento all’altro come si fa in ogni scuola di ogni ordine e grado, in qualsiasi materia, lascia in eredità solo frammenti sconnessi di saperi.
Sarebbe utile poter avviare situazioni a-didattiche dove il giovane possa mettersi alla prova, anche osando, affinché le esperienze acquistino forma, spessore, scoperta autonoma, capacità di affrontare l’imprevedibile, l’incerto.
Il fenomeno dell’emergenza mostra che il dubbio è sempre presente. L’incertezza ci fa capire i limiti del sapere e dobbiamo essere quindi preparati ad affrontare l’inatteso.
E’ un’evidenza che le precauzioni ci immobilizzano mentre l’accettazione del rischio è pericolosa.
Holderlin diceva però : “Dove cresce il pericolo cresce ciò che salva”.
E lei scrive: nel dolore, nella morte, nel male cerchiamo il senso senza scappare, per farne esperienza da custodire, utile da raccontare.
Cordiali saluti!
Cara Maria Rosaria, mi piace molto il tuo commento.
Io penso che queste iniziative, come le Romanae Disputationes, ma anche altre, non debbano essere isolate. Dovrebbero fare sistema perché danno linfa vitale alla didattica. La passione del Prof. D’Avenia e di tantissimi altri Prof è fondamentale. Dovrebbe essere il sistema attuale a cambiare. Dovrebbero essere attuate delle riforme a favore della didattica ma, da un po’ di anni a questa parte, vedo molti tagli e questo è un problema di politiche educative.
Mi viene in mente un altro articolo del Prof: il numero 14, che descrive con nitore la società prefigurata da Aldous Huxley. Una società che cerca di allontanare le persone dai libri.
Prima sono stati estromessi i classici, adesso i libri di testo sono ridotti.
Temo faccia parte di una strategia di “imbarbarimento” progressivo e sistematico.
Io spero di sbagliarmi… Ad ogni modo, per quello che possiamo, cerchiamo di fare resistenza. Ci saranno sicuramente sempre delle forze più grandi di noi, forze incontrollabili, ma noi non dobbiamo lasciare nulla di intentato, pure se dovessimo fallire.
Ciao, cara Pepita sei gentile, leggo sempre con attenzione le tue opinioni e osservazioni derivanti da conoscenze sociali e culturali e ti penso donna dinamica, sorridente, sincera, insomma una persona solare. Riguardo la scuola, trovo sempre ideali le proposte del Prof ed emozionante il suo intervento alle Romanae Disputationes. Mi sento di condividere con Edgar Morin, che hai nominato nel tuo commento, che una cosa che manca nella scuola di oggi è la comprensione umana. Il riconoscimento della qualità umana dell’altro è la precondizione a ogni comprensione. Nel tempo in cui viviamo c’è invece un’incomprensione generalizzata che rende difficili le relazioni interpersonali a scuola e non solo, c’è una incapacità all’autocriticarsi e sfiducia nell’altro. La comprensione intellettuale richiede di apprendere nel contempo il testo e il contesto, l’essere e il suo ambiente, la comprensione del prossimo richiede in più di capire ciò che gli altri vivono. Di quali insegnanti conserviamo un buon ricordo, una eredità? Di quelli che avevano una personalità forte, ci guardavano dritti negli occhi, ci conoscevano e comprendevano. Gli studenti sanno sempre riconoscere qual è l’insegnante bravo e lo amano anche se è severo. È la passione dell’insegnante, per il lavoro che fa, per la sua vocazione, per il bene dei suoi ragazzi, che fa scattare il desiderio di quella lezione. È per questo, che come propone il Prof 2.0 a fine anno sarebbe utile che gli alunni dessero un voto ai loro insegnanti. Una riforma della nostra scuola dovrebbe essere radicale e credo che il ministero si dovrebbe avvalere dell’aiuto di un comitato composto da professori riconosciuti come bravi maestri e che hanno esperienza dei bisogni delle nuove generazioni affinché possano apprendere con piacere e lavoro serio conoscenze utili perché la realtà non risulti loro estranea quando camminano per le strade del mondo. Un abbraccio. M. R.
Cara Maria Rosaria,
Scusami se ti rispondo in ritardo, ma ho visto solo ora il tuo messaggio.
Grazie mille per i tuoi complimenti. Io mi sforzo di essere solare, ma non sempre ci riesco.
Ci sono le difficoltà e spesso mi trovo a fare i conti con le mie zone d’ombra. Cerco di non scoraggiarmi e di fare tesoro di tutto quello che succede, nel bene o nel male.
Grazie ancora per i tuoi complimenti : mi hai dato una forte dose di autostima.
Concordo pienamente con te su tutto quello che hai scritto.
Un abbraccio,
Pepita.
“Se ne scegliessimo anche solo uno l’anno, ogni studente, da 6 a 18 anni, leggerebbe, come si deve, una dozzina di libri fondamentali. ”
Potresti darci una tua personalissima lista di classici immancabili dai 6 ai 18 anni, da regalare e leggere insieme ai nostri figli ??
con la speranza che li leggano anche a scuola, ma intanto… almeno potremmo leggerli noi…
Ottima idea! Mi ci metto e la scrivo. Abbiate pazienza.
Caro professore,
ho letto il suo articolo sull’estremismo e sono rimasto colpito in particolar modo quando parla del’importanza della lettura integrale dei libri; libri “fondamentali”. Io sono un giovane insegnante e sto imparando che tipo di insegnante voglio essere, per quello cerco spesso e volentieri un confronto con altri docenti. Per questa ragione da un paio d’anni ho scoperto un’associazione di insegnanti che si chiama Diesse, all’interno della quale c’è una Bottega, chiamata Libro “fondativo”, che si dedica proprio a quello che lei dice! C’è il desiderio di far conoscere l’importanza della lettura ad alta voce in classe, integrale (magari con qualche adattamento in base all’età, pensando a elementari e medie), di libri leggendo i quali si può incontrare l’umano nei suoi tratti “fondamentali”: l’essere creatura, la sete di infinito, le grandi domande, il conflitto fra il bene e il male…
Sono io il primo ad essere stato colpito da questo fatto. Nel corso dei miei anni da studente, nessuno mi ha mai letto “tutta” un’opera, o cercato di farmi riflettere di fronte ai limiti e alle provocazioni che i libri possono metterci di fronte. E invece, l’anno scorso, ho tentato un azzardo. Usando una riduzione fatta veramente bene, ho letto tutta la Divina Commedia a una classe di seconda media. Tutta! E’ stato bellissimo. I confronti che ne sono nati, le domande, l’affezione che si è creata con la storia… Si figuri che ai ragazzi non è sembrata nemmeno una cosa così strana. Quando ho detto loro che l’avremmo letta tutta, a loro è sembrato “normale”, era ragionevole conoscere interamente una storia, come guardare per intero un film: chi vedrebbe i primi dieci minuti di un film, poi lo manderebbe avanti velocemente per guardarne a caso altri dieci minuti e così via?
Leggere, leggere interamente, leggere libri fondamentali… ha ragione, è bello e funziona! Anche noi con la nostra Bottega stiamo cercando di testimoniarlo, per dire agli insegnenti di non aver paura di far vivere un’esperienza letteraria autentica (quindi educativa), perché i ragazzi hanno sete di cose grandi, di sfide, di estremi con i quali confrontarsi.
Caro Paolo, conosco la bottega e mi piacerebbe essere aggiornato sui vostri lavori. Spero che molti leggano il tuo commento. Buon lavoro e grazie
Grazie professore,
sarei ben felice di aggiornarla. E’bello condividere e scoprire che in diversi stanno intercettando la stessa esigenza e in diversi stanno cercando di affrontarla!
Se vuole le riscriverò meglio qui sul blog, o se preferisce diversamente mi dica lei. Le lascio il mio contatto (mail: pferrerom@hotmail.it).
Buona giornata,
Paolo FM