Ultimo banco 16. Il Natale secondo Fëdor
San Pietroburgo, Natale 1875. Al club degli artisti è in corso una scintillante festa di Natale, durante la quale molti dei presenti cercano di mettersi in mostra e di sembrare più belli e intelligenti. Un uomo in disparte, guardando con attenzione la scena e i volti degli invitati, nota che tutti si divertono ma che in realtà nessuno è veramente contento, allora decide di smascherare il gioco: «La disgrazia è che voi ignorate quanto siete belli. Ognuno di voi potrebbe subito rendere felici tutti gli altri in questa sala e trascinare tutti con sé. E questo potere esiste in ognuno, ma così profondamente nascosto, che è diventato inverosimile. La vostra disgrazia è nel fatto che vi sembra inverosimile». Chi ha parlato in modo così bruciante è Fëdor Dostoevskij che racconta l’episodio nel suo Diario di uno scrittore, che raccoglie gli scritti dell’omonima rubrica tenuta sul settimanale “Il cittadino”. Per Dostoevskij, osservatore acutissimo, l’episodio mostra che se l’uomo smette di credere nella presenza di qualcosa di trascendente dentro e fuori di sé, diventa insicuro e comincia a disprezzare sé e/o gli altri. Al fatto di cronaca lo scrittore fa poi seguire un racconto. Alla vigilia di Natale, in un gelido scantinato, un bambino di sei anni, infreddolito e affamato, cerca di svegliare invano la madre. Allora esce per le strade innevate di Pietroburgo con indosso pochi stracci: chi lo incontra finge di non vederlo per non doversene occupare. Egli si rifugia in una casa piena di persone che festeggiano, ma viene cacciato con la magra elemosina di una moneta che gli cade di mano perché ha le dita congelate. Si rincuora osservando una vetrina piena di giocattoli ma viene colpito e inseguito da un ragazzaccio. Scappa e si nasconde dietro una catasta di legna. Dopo un po’ di tempo finalmente non ha più freddo e sente una voce misteriosa che gli dice: «Vieni alla mia festa di Natale, bambino». Così si ritrova in un luogo caldo, luminoso e pieno di bambini: ad accoglierlo c’è la madre sorridente. L’indomani, dietro la legna, i proprietari trovano il cadavere del bambino.
Finisce così il racconto Il bambino alla festa di Natale da Gesù, e la festa in cui il piccolo si ritrova è l’eternità. Dostoevskij dice di essersi ispirato a un fatto vero ma riguardo al finale aggiunge: «Quanto alla festa di Gesù poteva questo avvenire o no? Proprio per questo sono un romanziere, per inventare». Il racconto del bambino è la chiave per comprendere a cosa non credono più gli artisti della festa: in Dio e nel suo manifestarsi. Lo scrittore era convinto che quella di Cristo fosse una storia che si ripete in tutte le vite umane, infatti in ogni suo capolavoro mette in scena un passo evangelico che ne è la chiave di lettura: senza Lazzaro non si comprende Delitto e Castigo, senza le nozze di Cana I Karamazov, senza l’indemoniato liberato I demoni… Ne era convinto perché aveva sperimentato più volte l’intervento di Dio nella concretezza della sua vita: la condanna a morte e la grazia all’ultimo istante; i lavori forzati in Siberia e la lettura a memoria dell’unico libro a disposizione, il Vangelo; la malattia, la crisi economica e creativa, e l’incontro salvifico con la futura moglie Anna. Per lui la presenza di Dio nella vita di ogni uomo, per quanto nascosta o rifiutata, è continua e inesauribile. Il bambino dello scantinato, uno dei tanti che morivano di fame e freddo nella sua città, è infatti il Bambino di Betlemme: egli vaga con pochi stracci (le fasce) per le strade della città-mondo in cerca di uomini che vogliano accoglierlo, per loro muore (la catasta di legna) in croce, ma risorge nella festa eterna. Per Dostoevskij, Dio passa accanto a noi in infiniti modi ma soprattutto nelle creature fragili, come i bambini, dalla sofferenza dei quali era tormentato come mostrano pagine abissali dei suoi romanzi. La fragilità è la veste umana con cui Dio si fa vivo dentro e fuori di noi: non è mai un’evidenza schiacciante, ma un sussurro, un invito, un’occasione, una luce silenziosa… Non saremmo liberi se non fosse così, e chi non è libero non può amare.
Gli invitati alla festa «si divertono ma nessuno è contento» perché hanno smesso di credere al Padre che li ama senza riserve: chi non si sente amato, così com’è, fatica ad amare sé e gli altri. Lo vedo tutti i giorni: i ragazzi con genitori che li fanno sentire amati sono più sereni; affrontano la vita come un’avventura faticosa ma promettente; hanno le spalle e il cuore coperti. Dostoevskij crede fermamente che Dio passa vicino a ognuno di noi in vesti non appariscenti, chiedendoci di collaborare con lui. Vi auguro di riconoscerlo, cari lettori, con le parole che Dostoevskij scrisse a un uomo incerto se assistere o meno una donna colpevole di infanticidio: «Non fatevi sfuggire il momento in cui il Signore fa la sua mossa». Così il Natale accadrà in e attraverso di noi. Auguri!
Corriere della Sera, 23 dicembre 2019 – Link all’articolo e ai precedenti
Quanto è bello e vero quello che hai scritto!
Lo farò leggere ai miei figli
Buon Natale
Quanto è vero quello che dici!
Lo farò leggere ai miei figli.
Grazie. Buon Natale
Meravigliosa lettura natalizia, che spiega con semplicità l’essenza di questa festa e della vita in generale.
grazie
Gli ultimi articoli sono uno più intenso dell’altro.
Pregnante Ultimo banco numero tredici dove il ventaglio di: emozioni, sentimenti, comportamenti, atteggiamenti; introduce alla vicenda di Marie Henry Beyle che, sicuramente grazie all’intervento dell’angelo Lechitiel, poté diventare Stendhal.
Gli ultimi due articoli sono un crescendo verso il Natale.
Questo dedicato a Dostoevskij e al suo amore per i bambini, veramente inconsueto .
Nel Vangelo è descritto Gesù che vuole a sé i bambini, li abbraccia, li benedice e dice che solo chi sa essere come loro potrà entrare nel Regno dei Cieli.
Ogni bambino è un dono, un mistero, una complessità inafferrabile, una bellezza che va protetta, curata, amata.
Davanti al Presepe i piccoli s’incantano invece molti adulti è come se ne avessero timore forse perché Dio, entrando nella dimensione umana, riesce con l’infinita tenerezza di neonato a mettere in crisi anche i cuori più duri inducendoli ad un atto di contrizione seppure imperfetta che porta ciascuno a pensare: Oh Gesù, ti sei voluto far carne come noi, sono davanti a Te con un bagaglio che sai cosa contiene, non ho che la forza di guardarti, in silenzio con i miei limiti e indegnamente, m’inchino perché Tu mi lasci essere e mi vuoi bene sempre e in ogni caso.
Caro professore grazie di tutto !
Infiniti Auguri!
Bellissimo questo articolo, anche se inizialmente non sapevo come commentarlo, né da dove iniziare.
Mi è venuta incontro un’immagine presente in uno dei miei quaderni : un dipinto di Edward Hopper, cioè “Yonkers”.
Questo artista è stato abile nel descrivere, attraverso le immagini, l’alienazione presente nelle città. Un’alienazione che attraversa tutte le classi sociali.
In questo dipinto notiamo un tram anonimo (non si vede nessun passeggero dentro di esso, ma solo l’ombra del conduttore) che attraversa una strada altrettanto anonima. Ai lati della strada una “massa” di persone è ferma a guardare le vetrine dei negozi. Nessuno comunica, nessuno piange, nessuno ride. Gli individui sembrano delle monadi.
Sopra i negozi, sono presenti palazzi anonimi. Nessuno si affaccia alla finestra . Le persiane sembrano chiuse. In fondo al dipinto si nota l’ombra di un gigantesco palazzo. Sembra un mostro minaccioso, quasi un pericolo che incombe sulla città.
Da notare che la luce che circonda tutto è molto forte, sembra quasi gridata. Una luce inquietante, forse irreale.
Hopper non è un sociologo, eppure con le sue immagini ha evidenziato il senso di isolamento, di alienazione presenti nella società che rendono i soggetti individui tristi. Forse si divertono, ma dietro questa facciata si nasconde tristezza se non disperazione muta.
In realtà, gli individui rappresentati nei dipinti di Hopper, nemmeno si divertono: sono semplicemente isolati (la solitudine è un’altra cosa rispetto all’isolamento).
Nel 1903 il filosofo e sociologo Georg Simmel scrive il saggio “Metropoli e personalità” trattaggiando le caratteristiche psicologiche dell'”uomo metropolitano” : un individuo soggiogato dalle leggi del mercato e del potere. Un individuo che fatica a trovare un equilibrio tra istanze profonde e istanze sociali. Un individuo che deve quantificare tutto, che deve calcolare tutto.
Nel 1915 il sociologo Robert Park scrive il saggio “La città:indicazioni per lo studio del comportamento umano nell’ambiente urbano”. Egli si interroga sulla direzione che il modo di vivere urbano imprime ai comportamenti umani e alle relazioni tra gli individui. Secondo lui, i diversi tipi umani che vivono nelle città tendono a dare vita a tanti piccoli “mondi” sociali. Realtà vicine fisicamente, ma incomunicabili.
Alexander Mitscherlich, nel 1965 scrive: ” L’inospitalita’ delle nostre città”. L’edizione italiana viene intitolata : “Il feticcio urbano. La città inabitabile, instigatrice di discordie”. L’attuale realtà urbana si presenta all’uomo contemporaneo come una realtà estranea che non risponde ai bisogni autentici degli esseri umani, né dei bambini, privati del necessario contatto con la natura. Secondo questo medico e psicoanalista, la nostra società procede nella direzione dell’egoismo distruttivo e della massificazione.
Si, dobbiamo riscoprire la bellezza nascosta dentro di noi. È l’unica via possibile per non lasciarsi annichilire.
Riscoprire Dio in noi, il suo sussurro d’amore. Non dimenticarsi mai del fatto che siamo dei capolavori. Spesso ce ne dimentichiamo!
Dio è più forte di ogni male.
Lasciamo che abbracci la nostra vita e abbracciamolo a nostra volta nei modi e nei tempi che ci indicherà. Ritorniamo alla fonte della vita quando ci accorgiamo che siamo diventati più aridi.
Grazie, Alessandro, per averci ricordato che Dio cerca sempre di accompagnarci nel nostro cammino. Lasciamolo camminare con noi!
Accorgersi di Lui è una Grazia che accade e la preghiera costante ci svela, ogni anno, sempre qualcosa in più.
Bella la condivisione! Buon Natale Prof. !