Zibaldino: una Lettera e l’Eco (il prof)
1.
Ho bisogno di vedere come vedi tu le cose.
Avrai nella tua classe quella ragazzina timida che non parla mai.
Quella che diventa rossa solo a guardarla e che spera di non incrociare mai il tuo sguardo per evitare qualsiasi domanda.
Quella che nelle interrogazioni fa una fatica da morire a spendere parole.
Dimmi di lei!
Dimmi di te con lei!
Sono la mamma di quella ragazzina che, quando la guarda silenziosa in casa, ama il suo modo attento e riservato ma quando torna dai colloqui a scuola è distrutta da quello che sembra un limite che le impedirà ogni cosa.
Se puoi ti ringrazio
A presto
C.
Gentilissima C.
grazie per le tue righe accorate, nelle quali riesco a intuire quanto una madre continui a portare i propri figli in grembo, con i dolori conseguenti. Ma una madre sa anche che i dolori sono per dare alla luce, anche se quella luce sembra abbagliare tua figlia. Le mie considerazioni saranno generiche, perché non posso dare consigli senza conoscere tua figlia e senza conoscere la famiglia in cui sta crescendo, ma visto che mi chiedi di dirmi di lei ci provo.
Viviamo in una cultura un cui i timidi sembrano spacciati. Io con quella ragazzina comincerei con il cambiare le parole, perché le rivoluzioni più importanti che so fare sono queste. “Timido” ha la stessa radice di “timeo” e indica la paura, invece io preferisco “riservato” (termine che tu hai usato), che viene da re-servare, cioè conservare più e più volte. Tra i “riservati” conosco le persone più riflessive, profonde, attente (hai usato tu anche questo termine), proprio per questo loro “passo indietro” rispetto al mondo, che consente loro di vedere molto di più di coloro che riempiono il mondo di schiamazzo: l’attenzione è la presenza del presente in noi, altrimenti restiamo in superficie e non ce lo godiamo mai. Da questo piccolo cambiamento verbale per me comincia il racconto di una possibilità: questo suo essere così non è solo un ostacolo, ma una risorsa. “Tu pensoso in disparte il tutto miri”, così Leopardi identificò se stesso con una creatura solitaria, che proprio per il suo essere “schivo”, “romito” e “strano”, si sentiva fuori dal mondo e avrebbe preferito essere come tutti gli altri. Eppure proprio questo gli consentì di scorgere ogni dettaglio, scrivere “Il passero solitario” e far sentire a casa tutti quelli che, simili a lui, vivono questa “separazione” da quella gioventù che “mira ed è mirata, e in cor s’allegra”.
Con una ragazzina così io lavorerei anche a tu per tu (ogni tanto quattro chiacchiere dedicate solo ad un ragazzo lo rimettono al mondo, spezzando il guscio di invisibilità), perché percepisca uno sguardo di padre sul suo mondo interiore che le confermi che non solo quel mondo è “guardabile”, ma è anche “amabile”. Per questo credo sia molto importante il ruolo di tuo marito. Le ragazzine, più dei ragazzini, hanno bisogno della figura paterna, proprio perché capace di trasmettere loro, questo è il codice maschile, quella capacità di affrontare la fatica del mondo con slancio esplorativo, a guardar fuori, mentre la madre le contiene, come ha fatto con il suo grembo, e le aiuta a guardar dentro. Con una ragazzina così privilegerei il lavoro scritto rispetto alle interrogazioni e per le interrogazioni magari creerei situazioni più semplici: basterebbe ascoltarla con una compagna con cui si sente a suo agio e a poco a poco fare dei passi in avanti, con la collaborazione della classe. Con una ragazzina così cercherei di capire dove questa riservatezza diventa vero e proprio ostacolo per la sua crescita, perché lei ne prenda coscienza e impari ad abitare questa condizione senza esserne schiacciata. Con una ragazzina così eviterei che il suo essere “così” sia sentito come un problema: chi percepisce su di sé lo sguardo “del problema” si sente sbagliato e non comincia la strada di accettazione di se stesso che è la base della maturazione, nei nostri occhi dovrebbe vedere la meraviglia che è il suo inedito essere al mondo. Senza forzature attenderei le stagioni, aiuterei la graduale presa di coraggio in territori in cui la bellezza nascosta possa comunque rendersi evidente, cercherei di capire come il dono dell’invisibilità possa essere veramente un dono, come ci raccontano tutte le favole antiche e recenti, gli anelli di Frodo, i mantelli di Harry Potter… Per far questo tu e tuo marito (insieme) dovete andare a parlare con gli insegnanti e allearvi con loro, per questa meravigliosa ragazzina, che troverà la sua strada, se si sentirà guardata senza sentirsi sbagliata in questo mondo di chiassose apparenze. Mi ricorda il bel personaggio di Violetta nel film di animazione Gli Incredibili: la forza per essere come si è la si trova in famiglia, non a scuola, è lì che questa ragazzina riconoscerà i suoi “superpoteri” da spendere nel mondo, anche quando sembrano essere debolezze insormontabili. Inoltre se gli insegnanti di tua figlia non sono in grado di “vederla”, e se dopo averli coinvolti in questo processo di crescita continuano a non vederla, cerca altri insegnanti disposti a “guardare” e quindi a “vedere”. A volte mi chiedo come si faccia a svolgere questo mestiere come se i ragazzi non esistessero…
A.
2.
Il mio libro preferito di Eco si intitola “Sei passeggiate nei boschi narrativi” (credo che ogni insegnante di lettere ne possa trarre giovamento). Ne incontrai alcune parti durante l’ultimo anno di liceo, relative al gioco di specchi narrativi che Manzoni crea con il suo romanzo, e me lo lessi per intero durante gli anni universitari. Lo uso tutt’ora per le lezioni a scuola. Mi affascinò la metafora della narrazione come un bosco da esplorare: la foresta è parola che ha la stessa origine di “fuori”, quello che resta oltre la “porta” di casa, alla quale bussano i “forestieri”, portatori di doni o di minacce. Nelle favole il bosco è l’ingrediente essenziale perché ci sia avventura. I passi che più ho amato di questo libro sono due:
1) “Ma passeggiare in un mondo narrativo ha la stessa funzione che riveste il gioco per un bambino. I bambini giocano, con bambole, cavallucci di legno o aquiloni, per familiarizzarsi con le leggi fisiche e con le azioni che un giorno dovranno compiere sul serio. Parimenti, leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale. Leggendo romanzi sfuggiamo all’angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul mondo reale. Questa è la funzione terapeutica della narrativa e la ragione per cui gli uomini, dagli inizi dell’umanità, raccontano storie. Che è poi la funzione dei miti: dar forma al disordine dell’esperienza.” (p.107)
2) “Ma c’è anche un’altra ragione per cui la narrativa ci fa sentire a nostro agio rispetto alla realtà. C’è una regola aurea per ogni criptoanalista o decritattore di codici segreti, e cioè che ogni messaggio può essere decrittato purché si sappia che si tratta di un messaggio. Il problema col mondo reale è che ci stiamo chiedendo da millenni se ci sia un messaggio e se questo messaggio abbia un senso. Con un universo narrativo noi sappiamo per certo che esso costituisce un messaggio e che un’autorità autoriale sta dietro a esso, come sua origine e come insieme di istruzioni per la lettura.
Così la nostra ricerca dell’autore modello è la ricerca dell’Ersatz di un’altra immagine, quella di un Padre, che si perde nella nebbia dell’infinito, per cui non ci stanchiamo mai di domandarci perché ci sia dell’Essere piuttosto che Nulla”. (p.143)
Eco, in questi passi di due delle sei conferenze pronunciate ad Harvard (stesso contesto che ci ha regalato le Lezioni americane di Calvino), spiega che senza storie non riusciamo a mettere in ordine l’esperienza, è una necessità antropologica di comprensione e quindi abitabilità della nostra condizione umana (non a caso diciamo “il nostro soggiorno su questa terra”). Mettere in ordine l’esperienza significa cercarne la verità, trasformare il bosco in soggiorno.
Nel secondo brano arriva a dire che questa ricerca, che si sostanzia nella domanda filosofica per eccellenza: perché sono qui anziché non esserci, rimanda alla certezza che un messaggio è stato mandato da qualcuno e che quel messaggio è per me. Per questo non smetteremo mai di voler ascoltare storie: perché ne va del mistero della nostra esistenza. A meno che non vogliamo rinunciare ad essere uomini.