Zibaldino: una Lettera, un Pianista, una Profezia
Buongiorno Alessandro,
come sta? (forse questa è una domanda indiscreta, ma credo sia di vitale importanza).
Non so se leggerà questo messaggio, ma un tentativo voglio farlo comunque. Da perdere, in fondo, non ho niente.
Sono S., una diciassettenne italiana che attualmente vive negli Stati Uniti; sto studiando per un anno all’estero. Sto sperimentando, imparando, esplorando. All’inizio pensavo che salire su un aereo e partire mi avrebbe aiutata a trovare me stessa, a capire cosa voglio realizzare in quel grande ma terrificante futuro in cui ora sto muovendo i primi passi. Mi illudevo: non è così semplice rispondere alle migliaia di domande che popolano la mia mente, e tantomeno è semplice capire ciò che voglio.
Leggevo ieri sulla sua pagina Facebook l’email che ha ricevuto da A., ragazzo laureato in Filosofia che ora vive all’estero. In genere, quando un post è composto da più di dieci frasi, tendo a non finire di leggerlo, un po’ per pigrizia, un po’ per fretta, un po’ per disinteresse. Ieri, però, è stato diverso. Le parole di A. mi hanno colpita particolarmente, al punto che le ho lette più volte, e alla fine le lacrime sono scese dai miei occhi senza un motivo apparente. Penso che ciò che A. ha scritto sia un’analisi oggettiva e realista della realtà, un’analisi che mi ha inevitabilmente aperto gli occhi.
Leggere quella lettera (che, seppur “elettronica”, sempre una lettera rimane) mi ha regalato nuove consapevolezze, nuovi spunti di riflessione, nuovi sentieri (o pensieri?) da percorrere alla ricerca delle risposte che tanto voglio.
E sì, il futuro continua a spaventarmi: chi sarò? Non so dove voglio andare, quale università scegliere, quale lavoro farò; il mostro della disoccupazione mi terrorizza, temo di fallire. Ma dopo aver letto la storia di A., l’idea di essere una cameriera o una babysitter dopo la laurea non mi fa più paura. Ha ragione: ad un certo punto il nostro posto nel mondo si paleserà, bisogna portare pazienza. E non sarà il rango della mia professione a rendermi chi sono. Quindi vorrei ringraziare A. per aver espresso le sue riflessioni, e lei per averle condivise con noi. Leggerle per me è stato illuminante, un po’ come il Sole nel “Mito della Caverna” di Platone (anche se io, dalla “mia” caverna, mica sono ancora uscita).
Fuori nevica, è freddissimo, il vento gelido mi penetra. Ma sorrido, perché ciò che ho letto mi ha dato nuova energia, nuova positività, nuova voglia. Porterò nel cuore la frase “Se togli Itaca chi diventa Odisseo?”. Non sono certa di quale sia la mia Itaca, non so se sia fatta di luoghi, di persone o di ideali. Forse tutte e tre le cose. So però che l’assurdo e il nulla non fanno per me: scelgo come meta la realizzazione di un futuro in cui io sappia colmare l’abisso che separa sogni e progetti, per poi attraversarlo e raggiungere i miei obiettivi.
Perdoni il mio italiano un po’ scricchiolante, la mia testa è stata impostata sull’inglese negli ultimi mesi. Grazie ancora, le auguro di trascorrere una meravigliosa giornata
S.
Cara S.
abiti momentaneamente in una terra in cui “Come stai?” suona, se tradotto letteralmente, “Come sei?”. Le lingue straniere danno sempre scrolloni alle nostre abitudini linguistiche (ed esistenziali). Quanti “come stai?” di circostanza, detti solo per abitudine. Nel tuo caso la parentesi ne fa davvero un “come sei?”. Posso dirti che sono felice. Felice viene dal latino e vuol dire fecondo. I latini indicavano un albero che dà frutto come “arbor felix”, ma non era una metafora, ma proprio la semplice descrizione senza alcuna poesia della pianta carica di frutti. Per questo posso dirti sono felice, perché vedo che la mia vita dà frutto, è feconda, nonostante le mie debolezze, fragilità, egoismo, pigrizia…
Hai letto il post benché fosse più lungo di 10 righe. Splendida sintesi della tua generazione: “o mi catturi con la vita vera, oppure mi annoio subito e stacco”. Avete un recettore della noia sensibilissimo. Per questo a volte ci danniamo, insegnanti e genitori, perché per questa mancanza di pazienza, magari vi perdete qualcosa di grande. Però sei rimasta a leggere, perché solo la vita ridesta la vita e la aggancia. Tutti si lamentano del fatto che la scuola sia noiosa, ed è per lo più vero, ma la soluzione non sono gli effetti speciali (tecnologici o meno), l’alternativa ad una scuola noiosa non è una scuola divertente, ma una scuola interessante, cioè una scuola che afferri l’ “esse” (la vita) e la faccia sentire coinvolta (inter-). E tu sei rimasta catturata da quello scambio di lettere perché tocca la tua vita, così come ha toccato la mia.
Il futuro ti spaventa? È una benedizione. Se il futuro non lo immaginiamo, non esiste. E immaginarlo come una sfida che fa paura è già un buon punto di partenza, significa che in te cova la speranza che a questo Futuro ci sia qualcosa da strappargli. Certo, poi, come i bambini che hanno paura del buio, lo riempi, come fanno loro con lo spazio sotto il letto, di tutti i mostri possibili. Ma basta accendere la luce, o sentire una voce amica, per ricordarsi che sotto il letto non c’è niente, ma solo quello che tu vuoi ci sia. Perché allora immaginare mostri (sei tu che dici “il mostro della disoccupazione” “il mostro del fallimento”), e non possibilità: elimina il virus del successo, che fa subito pensare al fallimento, il successo è essere se stessi, fedeli a se stessi, ai propri talenti per farli fiorire, ai propri difetti per superarli (per me una madre che sorride ai suoi bimbi quando è ormai stanchissima ha successo, per me un professore che prepara una buona lezione ha successo, per me un diciassettenne chino sui libri ha successo: ha successo chi lotta per dare spazio al vero, al bello, al buono, che arrivino o no gli applausi).
Una poetessa che amo molto (il cui successo è stato postumo: lei riempiva quaderni di poesie, trovati dopo la sua morte e questo le bastava, anzi le bastò a diventare la più grande poetessa americana) diceva di sé “I dwell in possibility” e si riferiva proprio alla sua poesia, come casa della possibilità, finalmente abitabile grazie alle parole. Allora proviamo ad abitarlo questo futuro pauroso e di collocarvi possibilità buone. Sei sulla buona strada, perché dici che l’assurdo e il nulla non fanno per te, inoltre hai la fortuna di passare un periodo all’estero con l’intento, come dici tu, di conoscere ed esplorare, come facevano quei navigatori che attraversavano l’oceano per esplorare terre nuove. Certo loro rischiavano la vita, ma in qualche modo anche tu ne rischi almeno un po’ e la paura è compagna di strada o di navigazione. Mi hai fatto venire in mente, perché lo abbiamo letto in classe in questi giorni, quello che Manzoni dice di Renzo in fuga da Milano “lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sé non ne poteva uscire”. Chiedere aiuto: questo è un “successo” oggi poco in voga, farsi vedere deboli, bisognosi, smarriti, non è consentito. Credo invece che i veri coraggiosi sappiano chiedere aiuto, perché nessuno ce la fa da solo.
Hai ragione tu, Itaca è fatta di luoghi, persone, ideali. Riempi il buio di questo: scegli il luogo dove si fa meglio quello che ti piacerebbe fare; scegli le persone che possano guidarti in questo cammino e possano insegnarti il meglio, mettendoti alla prova come si deve, senza sconti; scegli gli ideali capaci di riempire la tua mente e il tuo cuore di una passione che non si spegne. Insomma giocati la vita per quello che ritieni vero, bello e giusto. E poi buttati con tutto il corpo e l’anima verso questa Itaca, con tutta la fatica e la gioia che questo comporterà, e la seconda riscatterà la prima (a proposito ti consiglio di leggere “Itaca” del poeta Kavafis, come promemoria per i giorni tristi e difficili, quasi fosse una preghiera). Così colmerai l’abisso su cui ogni vita è sospesa e che ci fa tremare e chiedere perché siamo qui. Sai perché siamo qui? Per prenderla questa vita, guardarla negli occhi e smetterla di aspettarci qualcosa da lei, ma chiederle cosa si aspetta lei da noi. E quando comincerai a fare così ogni giorno si trasformerà in un’occasione di imparare, ascoltare, guardare, studiare, amare, ricevere, e persino soffrire, perché l’unica Itaca che dobbiamo costruire è nel cuore, da lì nessuna tempesta te la può strappare.
La mia giornata è stata molto bella, grazie anche alla tua lettera. Ti ho immaginata a guardare quella neve che cade copiosa e mi è sembrata un’immagine feconda: una persona costretta alla pazienza del guardare. Nessuno di quei fiocchi è uguale all’altro perché si formano ad altezze, temperature, correnti diverse, eppure l’intima struttura geometrica di ogni fiocco è perfetta e bellissima se guardata al microscopio. Non ti dà pace che in questo caos della caduta, intimamente, ogni cosa sia bella, ogni cosa sia in ordine? Non sarà così anche per noi?
Ti abbraccio
A.
2.
Il corpo di Ezio Bosso, è questa la verità che ha perforato i nostri occhi, cuore e mente. Oggi più che mai, perché il corpo è il vero campo di battaglia di questo nostro tempo. Quel corpo proprio perché limitato dalla SLA ha mostrato con più evidenza l’unità tra spirito e carne, la seconda che manifesta il primo, il primo che rende trasparente la seconda, ribadendone l’assoluta unità, soprattuto quando il compositore italiano ha abbracciato il pianoforte e ha cominciato a suonare. Le sue mani erano totalmente quella manifestazione e quella trasparenza, fino a quel momento limitata e nascosta dal resto del corpo. Anche Beethoven, quando diventò sordo, suonava con l’orecchio incollato al pianoforte per sentirne le vibrazioni, così creò alcuni tra i suoi pezzi più misteriosi e belli. Per questo guardiamo il video di Bosso e lo condividiamo, perché qualcosa dentro di noi si ammorbidisce a colpi di nostalgia, e non c’entra nulla con la spettacolarizzazione di una malattia o di un dolore, perché quello che vediamo non è la malattia, anzi la malattia rende più evidente l’unità assoluta dell’uomo, che è più di un animale, perché ha spirito (Bosso è stato “spiritosissimo”), che è più di un angelo, perché ha carne (Bosso è stato “carnalissimo”). Ogni nostro soffrire, ogni nostra tristezza, ogni nostra caduta non sono altro che le fratture che provochiamo a questa unità. La malattia ce lo ricorda, l’arte ce lo ricorda, cioè ce lo ricordano il nostro essere fragili e il nostro poter superare la fragilità, facendone fiorire le possibilità migliori. Gli atti che in noi uniscono spirito e corpo sono gli atti che dovremmo coltivare più di tutti, per diventare autentici come Bosso. La distanza tra la tenerezza e la pornografia, la distanza tra la bellezza e l’apparenza, la distanza tra l’eleganza e la volgarità, la distanza tra l’arte e la provocazione, la distanza tra la verità e l’informazione, la distanza tra il grembo e l’utero, la distanza tra il volto e la faccia, sono il prezzo – spesso salatissimo – che decidiamo di pagare al divorzio tra spirito e carne.
3.
“Se il governo è inefficiente, appesantito dalla burocrazia e in preda a delirio fiscale, meglio tutto questo che non il fatto che il popolo abbia a lamentarsi. Pace, Montag. Offri al popolo gare che si possono vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, o il nome delle capitali dei vari Stati dell’Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l’anno passato. Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi.”
Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1953)
Sono una prof di Letttere. Anzi una ex-prof, perché quando ho voluto inserire la mia mail della scuola dove ho lavorato per tanti anni, non mi é stato più permesso.
Sono in pensione dal 1°settembre, ma SONO e RIMARRO’ FINO ALLA FINE UNA PROF. Infatti continuo ad andare a scuola, a fare teatro, a insegnare nel corso pomeridiano di latino, a offrire le mie competenze maturate in un periodo molto lungo e attraverso tante scuole e tanti ragazzi che ho incontrato e a cui ho cercato di dare il massimo. Lo faccio gratis, perché a Roma hanno approvato una stupida legge in cui un pensionato non può assumere incarichi dall’amministrazione a cui apparteneva, per evitare ai papaveri di stato di cumulare benefit e incarichi. E così buttano a mare tutta l’esperienza di chi potrebbe dare ancora tanto ai colleghi e ai ragazzi.
E poi, comunque non ci sono soldi. Per la scuola e la cultura non ci sono mai soldi.
I colleghi mi chiedono perché lo faccio, se sono scema. Molti di loro non ne possono più di insegnare e so che la burocrazia e le difficoltà con ragazzi e genitori rendono sempre più demotivante questo lavoro.
Non importa. L’anno scorso ho fatto vedere ai miei ragazzi di III media un video con una tua conferenza, caro Alessandro, quella in cui si dice che l’adolescenza non è una malattia. E’ piaciuto molto e ne abbiamo discusso. Ci siamo commossi quando hai parlato di don Puglisi, perché uno dei temi su cui abbiamo lavorato per l’esame é stato proprio la mafia.
Abbiamo discusso tanto delle cose di cui parla la fanciulla diciassettenne che studia all’estero. Quello che ho cercato di dar loro è il gusto della vita, di non accontentarsi della mediocrità, di non essere pecore nel gregge, di usare la spirito ” critico” (da krìno; giudico) di vivere la sfida nel dare il meglio di se stessi. sempre!
Cara Anna Maria, ti ringrazio per le tue parole. Spero di mantenere negli anni il tuo spirito. Fortunati i tuoi ragazzi. Un abbraccio
Caro Alessandro,
inizio questa mia giornata di lavoro leggendo la tua risposta a S., che ha scelto di “essere” americana per un anno. Ha la stessa età della mia prima figlia e mi commuovo…le stesse paure, le stesse insicurezze, gli stessi timori ma anche le stesse infinite possibilità. Mi commuovo e mi rassereno leggendo la tua risposta…mi sembra di avere una conferma a ciò che ripeto alle mie figlie come un mantra, anzi come una preghiera…di diventare ciò che sono già…di rimanere fedeli ai talenti che il Signore ha dato loro…che abbiamo successo ogni volta che facciamo al meglio ciò che stiamo facendo…di fare discernimento sulla propria vocazione confrontandosi e chiedendo aiuto alle persone che insieme a me (e meglio di me) le fanno crescere nella fede. E come sempre, inoltro la tua newsletter anche a loro, sperando trovino il tempo e la voglia di leggerla. Questa volta ho aggiunto la poesia di Emily Dickinson. Che i nostri figli ( nello spirito e nella carne) possano sempre “raccogliere il Paradiso” nelle loro mani. Con affetto.
alessandra
Mi hanno fatto piacere le parole che ha scritto a proposito di Bosso. A me ha commosso per primo l’uomo, di una semplicità e profondità rara, e poi mi ha emozionato e meravigliato il pianista che in questa unità assoluta di cui lei parla, era un tutt’uno con la musica che suonava.
Non ho pensato alla spettacolarizzazione del dolore e della malattia, come ha affermato qualcuno.
E poi forse è ora che facciamo pace con noi stessi: che la disabilità sia esibita o nascosta non va mai bene.
Forse bisogna guardare e ascoltare “con il cuore”. Chi l’ha fatto ha visto un grandissimo artista.