28 gennaio 2025

Ultimo banco 230. Dov’era Dio?

Gli innamorati si danno sempre soprannomi, perché vedono ciò che il mondo non vede. Loro scelsero i fanciulleschi Mik e Fifi, perché amare è custodire il bambino che c’è nell’altro o curare il bambino che l’altro non è potuto essere. Lui è Miklós Radnoti, ebreo, promessa della poesia ungherese, occhi malinconici per nostalgia della madre morta dandolo alla luce; lei Fanni Gyarmati, insegnante, occhi azzurri quanto il suo amore per la letteratura. Quando la gente li vede passeggiare nella capitale ungherese desidera entrare nel loro cono di luce, che le loro foto insieme mostrano. Si erano riconosciuti a una lezione di matematica, lui 17, lei 14, nel 1926, e sposati nove anni dopo. Altri nove ne sono passati, con le luci e le ombre di ogni capolavoro, quando nel 1944 i nazisti occupano l’Ungheria e mandano Mik in un campo di lavoro da dove riesce a scrivere a Fifi parole essenziali, come i suoi versi: “Sei tu a dare un senso alla mia vita. Resterò in vita per te”. Eppure la guerra finisce e trascorrono i mesi, 18, senza notizie. E lei che legge e rilegge quella promessa capisce: ha scritto “resterò in vita”, e non “tornerò”. E così lo va a cercare nel campo in cui era stato deportato. Vuoto.

Chi ama non si dà per vinto, ma per vivo. E continua a cercare. Dove?

Scopre che i prigionieri erano stati portati dai tedeschi in un’altra località vicina, Bor, in Serbia, in una notte di novembre, di ghiaccio e di sangue. Anche lì dopo un anno e mezzo domina un apparente silenzio, nel quale lei, mentre passeggia tra le baracche vuote, ricorda (che cosa è la memoria se non vita che non può più morire?) un verso di Mik: “ero fiore, sono diventato radice”, che solo ora può capire, fissando un cespuglio di fiori bianchi sopra il terreno smosso. “Ubi amor ibi oculus”, dicevano i mistici medievali: chi ama, vede, perché l’amore non acceca ma ci vede benissimo… E così chiede ai soldati di presidio di scavare, lì sotto. Loro non resistono al dolore che ha reso quella donna folle e, per pietà, l’assecondano, in realtà è lei l’unica lucida, l’unica ad amare e quindi a vederci bene.

Infatti le radici di quei fiori sono i corpi di una fossa comune dove, un anno e mezzo prima, erano stati gettati i prigionieri. Ora restano solo vestiti laceri su ossa irriconoscibili, ma Fanni scorge un cappotto familiare su cui è incollato il numero 12, fruga nelle tasche e trova un taccuino dalla grafia inconfondibile, che parla proprio a lei in forma di poesia: “Vedi, cara, il campo dorme, i sogni frusciano./ …Io solo/ sono sveglio, assaporo un mozzicone invece di un tuo bacio/ e il sonno tarda a darmi conforto, perché/ ormai non posso più morire né vivere senza di te”. Lo psichiatra ebreo Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di sterminio, avrebbe avuto ulteriore conferma di ciò che sosteneva: hanno resistito soprattutto quelli che, oltre il filo spinato, avevano qualcosa da portare a compimento, un pezzo di mondo per cui erano insostituibili, per Mik era Fifi. Con lei, durante i giorni di prigionia, aveva infatti intrattenuto un dialogo in versi nell’unico tempo verbale che conosce la poesia: l’eterno presente. E in versi intitolati Lettera alla sposa le scrive: “Non so più quando potrò vederti di nuovo,/ bella come la luce, bella come l’ombra,/ colei che ritroverei anche da cieco e muto./ Sposa e amica./ So che ti ritroverò,/ ho percorso per te la lunghezza interminabile dell’anima,/ e strade di paesi; se serve con una magia attraverserò/ braci di porpora, fiamme che precipitano, ma tornerò”. “Percorrere la lunghezza interminabile dell’anima per tornare” è una delle più accurate definizioni d’amore che io conosca. Mik si era trascinato per trenta chilometri nella notte gelata, mentre lo picchiavano ripetendogli “ecco lo scribacchino!”, e poi un giorno gli avevano sparato. Ma proprio la sua scrittura aveva tracciato la via del ritorno, infatti il taccuino che Fanni aveva in mano, il Taccuino di Bor, è l’unica raccolta di poesie sopravvissuta a un campo di concentramento. Mik, morto a 35 anni, aveva mantenuto la promessa, “resterò in vita per te”, ma il “per” significava anche “grazie a”; e Dio aveva ascoltato la preghiera che Fanni ripeteva da quando avevano catturato Mik: “prendi me al suo posto”. Dio esaudisce a modo suo, perché le preghiere non servono a cambiare la realtà ma a cambiare chi le fa, e così Fanni visse fino al 2014, 102 anni, facendo memoria di Mik: gli anni sottratti a lui furono dati a lei che non smise di ripetere il suo nome al mondo e l’orrore del nazismo.

Ho inserito questa storia tra quelle dedicate alle donne di Ogni storia è una storia d’amore, e raccontarla una volta ancora è il mio modo di vivere l’odierna Giornata della Memoria, di cui Fanni e Miklós sono l’incarnazione. Lei frugò anche nell’altra tasca del cappotto di lui, a sinistra, e vi trovò due fotografie. Una era di lei bambina, l’altra di lei donna. Mik le teneva vicine al cuore per ricordarsi che amare è custodire il destino dell’altro, il bambino nell’altro. Era davvero rimasto vivo per lei, e lei rimase viva per lui, perché fare memoria non è suscitare sensi di colpa ma dare vita.

Fanni si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificarne l’inesistenza, perché conosceva la risposta: “Ero dove era l’amore, ero dove era il dolore. Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. Sono dove siete voi. E lì sarò sempre”.

Corriere della Sera, 27 gennaio 2025 – Link all’articolo e ai precedenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.