7 gennaio 2025

Ultimo banco 227. Che peccato!

Mentre nella religione è l’uomo a provare a raggiungere Dio con preghiere, sacrifici e credenze, nella narrazione alla base delle feste che si concludono oggi, è Dio che cerca di raggiungere l’uomo facendosi come lui. La teologia cristiana chiama questa operazione “redenzione”, un termine spesso vuoto anche per i credenti, perché l’uomo odierno con la sua autosufficienza non ha bisogno di alcuna redenzione.

Ci pensavo guardando un capolavoro di Botticelli, l’Adorazione dei Magi, detta Lami, conservata agli Uffizi, dipinta attorno al 1475 per una cappella della basilica di Santa Maria Novella a Firenze, ma esposta, fino al 2 febbraio, con allestimento encomiabile al Museo Diocesano di Milano. Il quadro del maestro del Rinascimento, tra i miei preferiti in particolare nella seconda parte della sua vicenda umana e artistica, rappresenta proprio la festa di oggi, l’Epifania, che significa Manifestazione. Di cosa? Il figlio di Dio si mostra non a un solo popolo ma a tutti gli uomini che lo cercano, rappresentati dalla triade di astronomi, i cosiddetti Magi, in viaggio dal vicino Oriente perché convinti che a moti straordinari dei corpi celesti, come quelli che accaddero allora, corrispondessero moti straordinari dei corpi terrestri, in questo caso la nascita di un re e salvatore, ma essi, una volta arrivati, trovano solo un bambino in una stalla. Che re-salvatore è mai questo?

Botticelli risponde ambientando la scena proprio nella sua Firenze del 1475. Perché?

La folla di fronte al bambino è composta da una trentina di personaggi, i Magi e il seguito. Persone altolocate, in ricche vesti dell’epoca del pittore, ciascuno con una precisa identità storica e psicologica. Il Rinascimento celebra l’unicità del singolo, e così Botticelli osa prestare ai Magi il volto di tre celebri esponenti (Cosimo e due figli, già defunti) dei Medici, la famiglia più potente dell’epoca. Il gioco continua rappresentando altri nomi di spicco della favolosa Firenze del tempo, tra i quali il più importante, Lorenzo il Magnifico, perso nei suoi pensieri; sono poi riconoscibili mercanti, banchieri, artisti, intellettuali e lo stesso pittore che si auto-ritrae in primo piano con lo sguardo verso lo spettatore, come invitandolo ad avvicinarsi. Insomma questo capolavoro di storia sacra, finezza prospettica, armonia di forme e colori, è in fin dei conti un quadro politico e celebrativo, come quando vogliamo farci la foto con una “star”. Oggi il quadro sarebbe affollato da politici, manager, imprenditori, artisti, scienziati nazionali e internazionali presenti a un evento di rilievo mondiale. Lo sarebbe mai la nascita di un bambino? Non credo.

Qui se si ha la pazienza richiesta da un capolavoro, si scopre che di ciascuno di quegli uomini in processione (non ci sono donne, invece al momento della morte di quel Bambino divenuto uomo ci saranno solo donne…) viene rivelata l’identità profonda: chi è stupito, chi adorante, chi distratto, chi assorto, chi in posa, chi indifferente, chi in dubbio… Insomma Botticelli, da raffinato ritrattista della grandezza dell’uomo, che il suo amico Pico della Mirandola (presente anche lui nel quadro) descriverà in quegli anni nel suo capolavoro filosofico, mostra che di fronte a Dio è in questione l’identità di ciascuno, la chiamata a essere se stessi, a rinunciare a maschere e illusioni attraverso cui il nostro ego crede di procurarsi vita, per aprirsi invece alla originalità che ciascuno è chiamato a incarnare, proprio come Dio si incarna in un essere specifico. Così nel quadro emerge, senza mezzi termini, dove si trova ciascuno nel processo di incarnazione, quanto è vivo o finge di esserlo. Se le vesti e il ruolo sociale possono abbagliare e nascondere la realtà, di fronte al Bambino tutti vengono smascherati, perché il “potente”, che cerca di accaparrarsi Dio, scopre che Dio non è un onnipotente da blandire, ma un impotente da accudire: l’onnipotenza di questo Dio non è potere ogni cosa ma potere amare ogni cosa. Quel bambino “redime dal peccato” i presenti. Cioè?

Redimere in latino significava “ricomprare”, “riscattare” e indicava la procedura giuridica per liberare, a pagamento, qualcosa da un vincolo, per esempio un bene confiscato, un prigioniero, uno schiavo… Il termine viene assunto in ambito cristiano per indicare l’azione compiuta da Cristo per liberare l’uomo in schiavitù e renderlo figlio. Ma che significa “schiavo del peccato”? Il peccato non è l’infrazione di una legge che, rispettata, ci procura un premio, ma è il tradimento del proprio destino: l’infelicità di aver perso la propria identità unica e irripetibile, che per il Dio cristiano è talmente unica e importante che non deve venir meno neanche dopo la morte, con quell’altra “operazione”, dimenticata anche dai credenti, che si chiama resurrezione. Di questa accezione di peccato rimane traccia quando qualcosa di prezioso si rompe, qualcosa di bello si rovina, qualcosa di buono marcisce, e diciamo: “che peccato!”, perché il senso di quella cosa è purtroppo perduto. Non a caso la parola greca che in italiano traduciamo con “peccato” significava “fuori bersaglio”: obiettivo mancato. La redenzione è allora la restituzione, a chi vuole, della possibilità di essere se stessi, di centrare il bersaglio: essere “beati”.

Ma come può un bambino in una capanna far tutto questo? Proprio grazie al fatto che l’onnipotenza divina si manifesta nel nostro mondo non nella forma più scontata per l’uomo, la potenza, ma in quella inattesa e forse deludente di chi ha bisogno di cura: un figlio, perché sia chiaro che da quel momento in poi “divino” è chi diventa, come lui, figlio di Dio. La redenzione è quindi il dono della condizione di “figlio” a chi la vuole, gratuitamente e liberamente, cioè un profondo e costante sentirsi voluti nella vita, come capita quando ci sentiamo amati sino al midollo o ci accade qualcosa che ci fa sentire il centro dell’universo: il contrario di “che peccato!” potrebbe essere l’espressione “è la fine del mondo!”, cioè tutta la storia del mondo si giustifica per arrivare a questo punto, a questo piatto, a questo quadro, a questo amore… Nella parte più profonda di me, mi sento voluto qui e ora, e per sempre, a prescindere da quello che ho, faccio, appaio. Infatti chi diventa figlio di Dio, cioè è redento, riceve continuamente le energie per non morire, nel ventaglio di ombre che in ogni vita vanno dal non sentirsi mai abbastanza al venir meno della vita, perché l’essenza del figlio del creatore della vita è avere sempre a disposizione tutta la vita.

La redenzione è quindi ricevere le potenze creative della vita, che indichiamo con il verbo “amare”, sinonimo nella narrazione cristiana di “creare”, infatti solo l’amore porta nel mondo qualcosa che non c’era prima, mentre il potere non fa altro che spostare energie già esistenti nelle mani di pochi, che comunque prima o poi moriranno. Il potere sposta, l’amore crea. Infatti solo chi si sente sempre amato, riceve vita, e non ha paura di amare, dare vita, come dice Cristo: “Non siete voi che me la togliete, sono io che la dono” (Gv 10). Chi vive così è già risorto: ha una vita che non si rovina, è sempre vivo ed è vivo per sempre.

La “redenzione” è quindi la possibilità, per chi vuole, di ricevere la propria identità da una relazione d’amore inesauribile, che è il segreto della felicità. Infatti una identità fatta d’amore, cioè che vive per amore e per amare, non ha bisogno di procurarsi a forza il consenso altrui per difendere l’ego dalla morte, perché è e ha già tutto. Inoltre il figlio, somigliando al padre, è creatore anche lui, porta il nuovo attorno a sé: la maniera più felice di vivere, perché chi crea al contempo si ri-crea.

Ecco allora perché l’opera di Botticelli smaschera ogni identità, perché mostra su quale relazione si fonda (di chi sei figlio?) in quel momento: il quadro manifesta la per-sistenza (per chi e cosa esisti? E per quanto tempo?) di ciascuno. Quindi la festa di oggi, Epifania, diventa anche la Manifestazione di chi è ciascuno: chi sono io denudato da ogni curriculum, ruolo, successo e travestimento? Chi e cosa mi tiene in vita? Quanto sono amato e quanto amo? Lo sguardo del pittore continua a fissarmi e mi chiede: stai tradendo o compiendo la tua vita? Sei un “che peccato!” o “la fine del mondo!”?

Corriere della Sera, 6 gennaio 2025 – Link all’articolo e ai precedenti

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