5 novembre 2024

Ultimo banco 218. Lame

Mi tormenta, nella cronaca recente, il ripetuto e cruento brillare di lame che tagliano e forano corpi innocenti. Forbici, cacciaviti, coltelli che tolgono la vita con crudeltà incomprensibile in mano a giovani che tutto sembrano tranne che assassini spietati, eppure infieriscono sulla vita indifesa con furore. Se fosse follia saremmo impauriti ma un po’ sollevati (lo è il nostro cervello quando cerca consolazione davanti all’ignoto), ma non è follia, queste lame non rivelano casi psichiatrici ma una parte trascurata se non rimossa nella vita personale e sociale.

Quando un simbolo si impone all’attenzione generale è per rivelarci qualcosa di noi stessi e del nostro rapporto con il mondo, dalle manifestazioni di finzione come il Trono di spade, titolo dato proprio in Italia ai libri e alla serie tv (Game of Thrones), in cui la spada è il segno di un mondo in cui tutto è sottomesso alla sete di potere e alla violenza, per arrivare alla perturbante realtà delle onnipresenti lame usate nei recenti assassinii perpetrati soprattutto da giovani.

Viviamo tempi taglienti, e a farne le spese sono spesso donne e bambini, vittime sacrificali di Paura e Rabbia (di esistere senza un perché e un per chi), due sentimenti che, in giovani incapaci di maneggiarli e disattivarli, producono un feroce Risentimento contro la vita stessa. Schiere di risentiti non possono che affilare le lame. Possiamo fare qualcosa?

Vedo questo risentimento nei ragazzi. La rabbia e la paura non accolte dagli adulti, fanno scivolare i ragazzi nell’odio contro una vita in cui non ci si sente amati e chiamati, ma stretti e costretti. Non abbiamo tempo e strumenti per ascoltare e disattivare il risentimento, e tagliamo (altra lama) corto sulle questioni di fondo, non abbiamo quasi nulla da dire sul perché valga la pena essere qui che non sia, di fatto, godere a spese degli altri e del mondo. Non c’è gioia, non c’è tenerezza, tutto è orrendo (dal latino “appuntito”) e pauroso come l’estetica di Halloween. Di fronte all’indifferenza, all’ipocrisia e al moralismo degli adulti, la rabbia e la paura crescono, ed esplodono in risentimento (il genere musicale più diffuso tra i ragazzi ne è la coerente colonna sonora). La mano impugna una lama e perfora la vita innocente e, a caso o con premeditazione non importa, la fa a pezzi, perché la vita è orrenda e l’altro una sua incarnazione. Ho notato che non sempre la lama si rivolge fuori ma volte si ripiega sul proprio corpo auto-sacrificato e ferito per il senso di colpa (“orrendo” sono io) o per sentire il dolore in un punto anziché nell’anima, cioè dappertutto.

Non è l’arrotino ad affilare le lame ma il risentimento, lame forgiate da ciò che dilania dentro. Come disarmare il risentimento? “Affilando” il pensiero, e il pensiero si affila solo sulla mola del cuore, cioè quando pensare è “farsi carico”, come quando diciamo “ti penso”. Pensare viene infatti dal latino pesare”: pensare è soppesare, cioè sollevare ciò che pesa sull’altro fino a schiacciarlo. E sull’altro pesano domande inespresse o inascoltate, rabbia e paura. “Nessuno mi ascolta”, “Ho questa rabbia che mi divora”, “Ho questa paura che mi paralizza” sento dire spesso ai ragazzi. Frasi che traduco così: “Tu, adulto, non mi pensi. Non ami le mie ombre e io non riesco a vedere la luce che le ha proiettate e che tu forse vedi”.

Il Joker del recente film mostra un doloroso autoritratto del giovane risentito che spera di guarire da paura e rabbia grazie al fatto che qualcuno, finalmente, sembra amarlo. Solo così può smettere di fingersi Joker, e ritrovare il suo vero nome, che nessuno ricorda, Arthur. In questi anni ho conosciuto ragazzi senza nome, il cui risentimento, covato a lungo, esplodeva poi in violenza verbale e psicologica: ferivano qualcuno in maniera proporzionale a quanto erano feriti dentro. Ma perché rabbia e paura non ristagnino nel cuore, bisogna aprire un varco, serve che qualcuno le pesi e le pensi, perché il risentimento è relazione primaria con la vita, ci lega (cioè può essere legame o catena) tutti, perché tutti siamo stati messi nella vita senza permesso e la vita schiaccia chi non ci si sente voluto. L’educazione se non parte dal dolore dell’altro, aiutandolo ad accogliere rabbia e paura, diventa un insopportabile paternalismo o moralismo. La prima libertà da conquistare è quella dalla rabbia e dalla paura di vivere.

Il risentimento, non riconciliato, fa da coltello più o meno mortale (senso di colpa, sarcasmo, invidia, violenza…), ma accolto, fa da aratro (apre un solco fecondo, diventa richiesta d’amore). Solo chi impara a perdonare la vita, per come è, può amarla. E l’amore permette a chi si sente impotente di non scegliere la violenza come via per potere qualcosa sulla vita, come accade a Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, il cui nome significa appunto “tagliato”, “diviso”, “separato”. Il risentimento lo porta ad “accettare” (scure non amore) due donne, giustificando con lucidità il delitto. Ma proprio quel delitto lo costringerà a fare i conti con ciò che non ha mai voluto affrontare: la sua divisione interna. Abbiamo noi oggi la cultura per curare queste scissioni interiori? Non lo so, ma se la lama rivela la ferita interna di chi la usa, possiamo provare a immaginare il suo contrario simbolico. Il contrario di tagliare è unire, congiungere, stringere… Il contrario è allora il filo. Non più il filo della lama, ma il filo che cuce, lega, sutura. All’opposto del filo della lama c’è il filo del discorso, del pensiero, del racconto: nessi, legami, nodi. Tessere la vita. Dal trono di spade al filo di Arianna: tenere il filo per chi, all’altro capo, combatte il mostro nel suo labirinto personale, perché sappia, in mezzo al buio e alla solitudine che tutti sperimentiamo, che potrà sempre tornare alla luce. Così accade anche a Raskol’nikov in prigione, dopo aver ricevuto l’inattesa visita dell’amata Sonia: “Era risuscitato, e lo sapeva, lo sentiva pienamente con tutto il suo essere… La sera di quello stesso giorno Raskol’nikov giaceva sul tavolaccio e pensava a lei. Quel giorno gli era sembrato che tutti i forzati, prima suoi nemici, lo guardassero altrimenti. Egli stesso si metteva perfino a parlar con loro, e gli rispondevano affabilmente. Forse che ora non doveva mutare tutto quanto?”. Il “tagliato” da sé e dagli altri diventa “unito” a sé e agli altri.

Basta che un filo ci leghi alla vita, ci faccia sentire voluti: che io sappia e senta che fuori dal labirinto o dalla prigione c’è un amore che mi vuole, che mi chiama. Solo allora troverò il coraggio di affrontare i mostri che ho dentro e non trasformerò gli altri in quei mostri. Spero che anche gli autori dei delitti possano trovare questo filo.

Corriere della Sera, 4 novembre 2024 – Link all’articolo e ai precedenti

Una replica a “Ultimo banco 218. Lame”

  1. Federica Salvan ha detto:

    Salve, sono Federica.
    Queste brevi frasi che inserisco assiduamente rappresentano terapia, cura della persona.
    La cronaca tra i giovani,impelle in modo cruente con lame che recidono

    Prendo punto però, per sottolineare che ciò sia sintomo di malessere giovanile sicuramente, ma disagio nella mia personale vicenda

    Ecco che le lame, strumenti appuntiti hanno toccato il mio corpo come ferita da me inferte.
    Inoltre, hanno diviso,fomentato inimicizie, ma ora, vorrei seguire soltanto unione, armonia.

    Grazie, non brandisco lame, ma solo emails., la parola che tesse legami.
    Federica in gratitudine

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