30 ottobre 2024

Ultimo banco 217. Albert e Max

La bella serie televisiva di Sidney Sibilia dedicata alla nascita degli 883, colonna sonora delle adolescenze di inizio anni ’90 come la mia, si apre curiosamente in Germania, un secolo prima. Si vede un quindicenne, Albert, punito dal padre per i risultati scolastici con un soggiorno a Pavia, la stessa città (“due discoteche e 106 farmacie”) che unirà Massimo Pezzali e Mauro Repetto negli 883. Il ragazzino tedesco è Albert Einstein. Le cose andarono in modo un po’ diverso (Einstein non fu bocciato, di fatto scappò…) ma la sostanza resta.

Tutto comincia dal banco occupato dall’uomo che ha rivoluzionato la fisica: l’ultimo. Proprio 130 anni fa, nell’ottobre 1894, un professore riprende duramente Albert per il suo comportamento. Al ragazzo che dice di non aver fatto nulla di male, il professore risponde: «È vero. Ma te ne stai seduto lì, all’ultimo banco, e sorridi, e ciò offende il rispetto che esigo dalla classe». Come racconta Walter Isaacson nell’appassionate biografia su Einstein l’azienda paterna era fallita e la famiglia si era trasferita da Monaco a Pavia. Albert, rimasto in Germania da parenti per terminare il liceo, trovava asfissiante quella scuola. Resistette fino alle vacanze natalizie, durante le quali raggiunse la famiglia in Italia, ma poi non tornò più in Germania. Che cosa faceva Einstein all’ultimo banco e perché quel banco lo salvò (e non solo lui)?

Einstein occupava l’ultimo banco per difendersi da un sistema di apprendimento coercitivo, fatto di ordini insensati e freddo autoritarismo. Infatti proprio in quella scuola di Monaco aveva partecipato al suo primo sciopero, anti zwang, parola tedesca per “obbligo”. “Dell’obbligo” è definita anche la nostra scuola, radice della sua crisi permanente, perché una motivazione a imparare esterna, basata su titoli, premi e castighi, è insufficiente e sfiancante come ogni azione guidata solo dai risultati e non dal valore intrinseco, bello-giusto-vero, di ciò che si fa. Immaginate che un albero si sforzi di crescere per paura d’essere tagliato o per vincere un concorso, e non perché è un albero… La nostra scuola usa ancora un lessico militare e utilitaristico: appello, classe, condotta, punizione, pagella, rapporto, file, promozione, crediti, debiti, profitto, rendimento… e un luogo che dovrebbe aiutare a individuarsi finisce con l’intruppare.

La ribellione di Einstein allozwang e la sua fuga natalizia sono la ribellione e la fuga di molti ragazzi in cerca di un modo diverso di stare al mondo: curioso, libero e gioioso. Dopo Natale il ragazzo rimase in Italia, dove passò mesi gioiosi aiutando il padre nell’azienda, godendosi le montagne in lunghe passeggiate solitarie o con amici e studiando i volumi di un noto manuale di fisica. La scuola si dà ovunque (anche a scuola) solo dove impariamo a guardare il mondo con stupore e cura. E infatti in quell’estate, il sedicenne Einstein scrisse il primo saggio di fisica teorica e poi si presentò, con due anni di anticipo, all’esame di ammissione al Politecnico di Zurigo. Superò matematica e scienze, ma non letteratura, francese, zoologia, botanica e politica. Il rettore, che ne aveva colto le attitudini, gli consigliò di completare la preparazione frequentando per un anno la scuola della cittadina di Aarau, vicino Zurigo. Einstein vi si trasferì e vi fiorì grazie alla didattica ispirata ai principi del riformatore svizzero dell’istruzione, J. H. Pestalozzi, il cui metodo prevede che gli studenti coltivino la dimensione interiore, sviluppino la propria unicità, allenino l’immaginazione. Insomma l’albero che facendo l’albero raggiunge la sua altezza. Lo studente deve infatti arrivare a scoprire attraverso un percorso autonomo dall’osservazione attenta della realtà alle immagini visive delle soluzioni. Pestalozzi aveva notato infatti, già più di un secolo fa, che l’esercizio mnemonico di nozioni imparate meccanicamente serviva solo a ripeterle a breve termine (le “interrogazioni”), ma non ad assimilarle per scoprire il nuovo, insomma addestramento più che apprendimento, ripetizione più che intelligenza.

Ad Aarau Einstein fiorì, perché, come racconta la sorella “gli allievi erano seguiti individualmente, si dava più importanza al pensiero indipendente che al nozionismo, e i giovani vedevano nell’insegnante non un simbolo dell’autorità, ma un uomo di personalità definita che stava accanto agli studenti”. Anni dopo il fisico diceva che quell’anno scolastico: “A confronto con i sei di scuola in un autoritario ginnasio tedesco, mi fece comprendere con chiarezza quanto sia superiore un metodo educativo basato sulla libertà d’azione e la responsabilità personale rispetto a uno che poggi sull’autorità esteriore”. Una libertà e una responsabilità oggi ancora rare in una scuola senza opzioni e flessibilità (al liceo avrei studiato volentieri anche musica, astronomia e cinema). E come sempre la genetica conta solo per il 20%: Einstein era predisposto ma non sarebbe diventato un genio senza quel metodo. Infatti proprio lì, grazie alla visualizzazione, concepì l’esperimento mentale che avrebbe rivoluzionato la fisica: che cosa accade se cavalco un raggio di luce? Così lo ricordava: “Ad Aarau compii i miei primi e piuttosto infantili esperimenti mentali che avevano un rapporto diretto con la teoria della relatività ristretta”. Anche lui aveva punti deboli: seguiva infatti lezioni private di chimica e francese. Eccelleva invece in musica. Così alla fine di quell’anno riprovò e superò l’esame per entrare al Politecnico, tranne per la parte di francese, anche se proprio in quel compito aveva scritto: “Penso a me come a un futuro insegnante di matematica e fisica, preferibilmente nei loro aspetti teorici. Quanto alle ragioni metterei al primo posto una certa attitudine al pensiero astratto e matematico. È naturale: si preferisce fare ciò per cui si ha capacità. Nella professione scientifica vi è poi una certa indipendenza che mi attira non poco”.

La felicità di una persona è nella sua vocazione, la somma di indole (per Einstein il bisogno di indipendenza) e attitudini (la sua capacità di pensiero astratto). A 17 anni Albert aveva trovato ciò che il tedesco unisce in una sola parola, per noi scomposta in vocazione e lavoro: beruf. Se si cerca di scorgere un albero crescere non si riesce, ma se lo si cura, a un certo punto, è lì, alla sua altezza. Così è l’educazione: non serve esaminare (quantificare) continuamente quanto un ragazzo cresce, serve aiutarlo a crescere, e accadrà. Questo a Monaco non sarebbe stato possibile, solo un metodo centrato sull’unicità dello studente, su osservazioni e soluzioni autonome, sull’immaginazione come motore dell’intelligenza, permise ad Einstein di diventare Einstein. Se fosse rimasto in Germania sarebbe forse diventato quello che il padre voleva per lui, che infatti scriveva a un amico: “Era previsto che diventassi un ingegnere, ma il pensiero di spendere la mia energia creativa su cose che rendono ancor più raffinata la vita pratica di ogni giorno, con la deprimente prospettiva di una rendita da capitale come obiettivo, mi era insopportabile. Pensare per il piacere di pensare, come per la musica!».

Proprio quella musica in cui Max Pezzali, che ho la fortuna di conoscere, trovò il suo beruf: anche lui a 17 anni, anche lui dall’ultimo banco. Fu bocciato e passò l’estate in punizione a Pavia, a lavorare nel negozio di fiori dei genitori. Per sopravvivere si dedicò alla sua passione, trasformando la cantina in studio musicale, e cominciò a comporre. L’anno dopo ripetè l’ultimo anno di liceo e si ritrovò al banco con Repetto. Il resto è musica che ascoltiamo e cantiamo con gioia da più di trent’anni.

Ognuno ha il suo posto nel mondo, anche se all’inizio è un ultimo banco, come Albert e Max.

Corriere della Sera, 28 ottobre 2024 – Link all’articolo e ai precedenti

2 risposte a “Ultimo banco 217. Albert e Max”

  1. Federica Salvan ha detto:

    Certamente, la scuola che pare spaventata dall’educazione che pone al centro la persona per come è, deve cercare la vocazione, non forzare, rinserrare come rivela un lessico cattedratico, dall’alto che uniforma e mira al risultato, alla prestazione.

    Essa comunque, dalla mia posizione di attenta osservatrice, si sforza ne la dedizione degli sdegnati di curare le scolaresche con mani, mente, cuore per richiamare Pestalozzi, ma spesso, è protagonista di proclami che vogliono esaltare.
    Grazie, Federica Salvan

  2. Elena ha detto:

    Grazie al tuo articolo mi sono accorta della serie televisiva dedicata agli 883!
    L’ho guardata e ho rivissuto, con gioia e nostalgia, tante emozioni degli ultimi trenta anni. La musica, infatti, ci consente di viaggiare nel tempo!
    Tra queste emozioni c’erano ovviamente, anche quelle legate alla scuola, luogo
    dal quale non ho mai voluto davvero uscire, per quanto l’ho amato.
    Io ci stavo bene… Oggi, invece, come docente, ci soffro molto…

    Comunque grazie! La tua rubrica mi serve anche per stare aggiornata su alcune belle occasioni da non perdere!

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