Ultimo banco 214. Per quale motivo?
La musica incanta il mondo, per questo la teniamo accesa: se il “fondo” della vita tace ci vuole un “sottofondo”. Nella vita, come nella musica, dai “motivi di fondo” dipendono le motivazioni. “Motivo”, da motus, in italiano è infatti sia la ragione di qualcosa sia il tema di un brano: entrambi mettono in moto ciò che è fermo, “motivano”. Mentre scrivo ho in sottofondo The logical song dei Supertramp, uscita nel 1979 e nata dall’esperienza scolastica del leader Roger Hodgson: “Sono stato al college per dieci anni e quando ne sono uscito avevo in mente mille domande: ora che diavolo mi succederà? Qual è il significato della mia vita? Mi chiedevo perché molte delle cose che mi avevano insegnato fossero per me prive di senso. Mi avevano insegnato a uniformarmi, essere presentabile e accettabile, tralasciando ciò che per me era invece fondamentale. Nessuno mi aveva mai detto chi io fossi o quale fosse il significato della mia esistenza”. Capita a tanti ragazzi di uscire da più di un decennio di scuola con la testa piena di istruzioni per funzionare ma senza un “motivo” per esistere, come sottolinea Hodgson: “Passiamo dall’innocenza e dalla meraviglia dell’infanzia alla confusione dell’adolescenza, che spesso finisce nella disillusione in età adulta e molti passano la vita cercando di tornare a quell’innocenza”. Si può evitare di vivere tra disillusione e nostalgia?
La canzone dei Supertramp, come la seconda parte di Another brick in the wall uscita poco dopo, criticava l’istruzione ma in modo diverso dai Pink Floyd. Si apre con un ricordo: “Quando ero bambino, la vita sembrava meravigliosa/ un miracolo, era bella, magica/ e tutti gli uccelli sugli alberi cantavano allegramente,/ gioiosamente, scherzosamente mentre mi guardavano”. Non abbiamo ancora ben capito perché gli uccelli cantino, i “motivi” funzionali alla specie non bastano. E questo perché la bellezza spesso è grazia: non ha una ragione ma dà una ragione, non ha un motivo ma dà un motivo. Ciò che conta allora non è tanto perché gli uccelli cantino ma che il loro canto sia così bello. L’adulto infatti ne ricorda l’in-canto, ora che vive nel dis-incanto. I genitori di quel bambino avevano divorziato e lui era stato spedito in collegio dove i “motivi di fondo” erano altri, come dice il brano: “Mi mandarono lontano per insegnarmi a esser ragionevole/ lineare, responsabile, pratico/ e poi mi mostrarono un mondo nel quale essere affidabile/ freddo, razionale, cinico”.
La scuola, invece di essere luogo in cui custodire e far eco al canto degli uccelli, allenando l’attenzione verso ciò che è vivo (bello, vero, giusto) per imparare a prendersene cura, si rivela un centro di addestramento per funzionare e sopravvivere. Quel bambino cresce “de-motivato”, ma rimane in lui un’insopprimibile sete di senso, come rivela l’apertura sognante ma addolorata del ritornello: “A volte però quando tutto il mondo dorme/ le domande scavano troppo per un uomo così modesto./ Vi dispiacerebbe per favore dirmi che cosa abbiamo imparato?/ Sembra folle,/ ma, per favore, ditemi chi sono”.
Il dolore salva solo se diventa un’avventura di ritorno a casa. Quanto dolore, fisico e psichico, nei ragazzi viene interpretato come un problema da risolvere perché tornino presto a funzionare, quando invece è il sintomo di una vita che chiede di guarire anche in noi. Se il sintomo è il cibo, è nel rapporto con il mondo che manca pace, se il sintomo è una ferita autoinferta, è nel rapporto con il mondo che manca pace, se il sintomo è tristezza, è nel rapporto con il mondo che manca pace, se il sintomo è una dipendenza, è nel rapporto con il mondo che manca pace. La pace era nel canto perduto degli uccelli rivolto al bambino, perché solo se il mondo ci guarda allora ci ri-guarda e ne avremo poi ri-guardo, che è restituzione dello sguardo, in un gioco circolare che crea appunto un “mondo” (insieme di relazioni), dove non c’è questo cerchio di pace si dà semplicemente un “intorno” insensato, indifferente e pericoloso. E infatti per dominarlo veniamo addestrati a funzionare, rispettando standard e ottenendo risultati sempre migliori: “Ti vorremmo gradevole/ rispettabile, presentabile: vegetale/. Dai, dai, dai!”. La vita è uniformità e carriera, l’ansia è il giusto prezzo da pagare. Segue un assolo ribelle di sassofono, che poi arricchisce il successivo ritornello insieme a inserti corali: è il dolore solitario di molti nella stessa notte cantata poco prima. Dolore e paura affiorano di nuovo non più sovrastati dal rumore della frenesia, della distrazione, dello stordimento: “Per favore ditemi che cosa abbiamo imparato./ Mi sentite? So che sembra folle/ ma per favore ditemi chi sono, chi sono, chi sono, chi sono…”. Eppure il ragazzo “funzionava”: “E io che mi sentivo così lineare/ digitale”, aggettivo che nel 1979 era seguito dal suono di un videogioco dei primordi, ironicamente e profeticamente inserito nella canzone…
Nel 2012 il 62enne Hodgson ritornava sul motivo della canzone: “Avevo 29 anni quando l’ho scritta, cercavo risposte. La domanda bruciante era: ‘per favore, dimmi chi sono’. Adesso non ho ancora tutte le risposte, ma sapevo che c’era qualcosa di più profondo là fuori: un luogo di pace. E alla fine l’ho trovato”. L’innocenza non è nell’età né in una illusoria proiezione nell’infanzia, ma è pace nel cuore, qui e ora, connessione piena – non solo digitale ma carnale – con la vita che, facendoci sentire “parte del mondo”, ci “motiva” a fare la nostra “parte nel mondo”.
Dove si trova questo “motivo di pace”? Di certo non dove la domanda “chi sono?” viene ignorata: “Chi sei non è in programma. Siamo già in ritardo sulla marcia. Ti diciamo noi come funziona”, scuole di sopravvivenza da cui si esce “armati” più che “amati”, funzionari de-motivati più che cercatori motivati. Dobbiamo invece frequentare luoghi in cui la risposta suona “Ti aspettavamo: siediti e raccontaci la tua storia. Prenditi il tempo che ti serve, noi poi ti racconteremo come è andata ad altri che avevano la tua stessa domanda”. Sarà a scuola, in famiglia, in un bosco, nell’amore, nell’amicizia… e in tutti i luoghi in cui ancora suona il “sottofondo”, il “motivo” della vita, che comincerà poi a risuonare dentro di noi e che neanche il frastuono quotidiano potrà più strapparci, come mi accadde in un istante eterno, uno di quelli in cui senti che il mondo è casa.
Mi ero innamorato del concerto di un compositore e mentre ero in metropolitana, nella calca della folla e nel rumore di pensieri confusi, tipico dell’età in cui ti chiedi invano chi sei, tra paura del futuro e insoddisfazione del presente, si è fatta largo una luce: quella musica ci sarà sempre per me. A questa bellezza io potrò tornare ogni volta che vorrò. Avrò sempre un “motivo” di gioia e ne farò un motivo di vita: provare, nel mio piccolo, a fare altrettanto.
Corriere della Sera, 7 ottobre 2024 – Link all’articolo e ai precedenti
Caro Alessandro, quando ti leggo alla fine mi viene solo voglia di dirti: ti voglio bene
Salve sono Federica Salvan che davvero scrive sovente; è indispensabile poiché le parole che proponi, aprendole e scomponendole, offrono suggestioni profonde.
Il motivo, il sottofondo muove se scopre che sei persona, che hai valore e non sei, in modo riduttivo, identificato con una funzione.
Questo è basilare nel cammino di vita di un adolescente ed io, come insegnante, irregolare, adattabile,, se mi è consentito, perché, come narrai in questi spazi, non ho sempre potuto farlo, come anche questo anno, non avrò classe per L.107, ho sempre agito così.
Li osservavo, lo sguardo, il volto, li interrogavo, lasciando scorrere le domande in una comunicazione autentica che fosse relazione.
Ecco che motus emergeva piano piano e li sentivo a me vicini, era il movimento, la risonanza dentro ed era un tesoro nell’ educazione.
In essa credo fermamente, ma che sia vera, genuina e che miri su chi sono io, non cero un individuo che risponde a standrds performanti, parola che rigetto, ma una persona coraggiosa da Cuore che sbalordisce ed affronta quello che preme di più.
Se tornerò in sula, nel dialogo con le scolaresche, questo mi propongo, una meta consistente che raggiunga il loro desiderio di felicità.
Pure io vorrei essere ritenuta insegnante che lascia signum, segno , non una funzione e che, non essendo funzionale per passo adgio, non può insegnare in umiltà.
Mi autoeduco , attingendo alla educazione di Don Luigi Giussani, cime introduzione alla realtà totale.
Grazie, con fede e fiducia che Lui mi conduca, Federica