Ultimo banco 149. Non sono solo canzonette
Festival è l’antico termine francese che indicava un evento sacro e popolare, arricchito da musica e danze. Nasceva dal bisogno di interrompere la fatica del lavoro quotidiano e condividerne i frutti. Dettata dal calendario liturgico e dai ritmi stagionali di terra e cielo, la festa dava senso agli altri giorni: riposare e gioire insieme del lavoro fatto, con musica e danza che sono i simboli umani della libertà dalle necessità dei giorni feriali. I Greci interrompevano anche le guerre per i loro festival. La città pagava il biglietto a tutti, anche ai più poveri, perché potessero partecipare a ciò che permetteva di riposare e di esistere come comunità. La polis, città in greco, da cui “politica”, non era un contenitore di corpi, ma un progetto di vita da creare insieme: un’armonia che tutti erano chiamati a realizzare, per andare oltre il mero stato di necessità e vincere un po’ la morte. Il tutto si è poi trasferito nelle feste liturgiche cristiane, qualcosa rimane nei nostri sabati del villaggio, ma nel “villaggio globale” tutto questo accade in tv. Nella cultura secolare e nella società di massa ciò che crea comunità si è trasferito sullo schermo. Il Festival della canzone è infatti un’occasione (un’altra è la Nazionale di calcio) per riposare e rifondarsi come comunità. Ci basta? Funziona?
Per l’evento, famiglie, amici e parenti si radunano in soggiorno e, se non è possibile, in chat. Si commenta, si danno voti, si demolisce, si osanna, in perfetto stile tribale social. Ma da dove viene questo potere unificante?
È un rito culturale: riscopriamo la nostra lingua che, con le sue vocali finali e il suo ritmo, è fatta per il canto. È un rito sociale: riesce a unire, come la Nazionale, tutte le generazioni, da Mattarella a Madame. È un rito religioso, dal testo sacro della Costituzione alle omelie nei monologhi, un rito che ha per fortuna anche le sue “eresie”: la profanazione dei Fiori simbolo del festival è stata interpretata dai ministranti come un sacrilegio, ed era invece l’istintivo smascheramento dell’ipocrisia (ipocrita in greco era l’attore), per ricordarsi che è solo una messa in scena, la verità è altro. È un rito politico, con i suoi voti: nei festival antichi l’autore vinceva raccontando Antigone, Prometeo o Alcesti, miti in cui il popolo si riconosceva e grazie ai quali si interrogava sul senso della vita. E i nostri quali sono? Quest’anno si è cantato quasi solo del mito dell’Amore, in tutte le sue declinazioni (famiglia, coppia, amicizia): relazioni spezzate, finte, stanche, tradite, finite, ma anche riparate… Ogni comunità si unisce per curare le sue ferite e in un Paese dalle relazioni (col corpo, con se stessi, con gli altri, con le cose) fragili e frantumate si è levato un canto piuttosto lugubre, una lunga malinconica preghiera perché l’amore torni a darci gioia e non solo fallimenti.
La parola (anche quella dei monologhi) non sempre è riuscita a in-carnarsi (farsi carne) e in-cantarsi (farsi canto), ed è suonata a volte artificiosa, in questi casi la musica è diventata un pre-testo, ma è il rischio che l’arte corre quando entra in tv. Ci sono stati però anche momenti in cui gli artisti sono riusciti a tradurre il loro incontro, doloroso o meravigliato, con la realtà, in note originali sgorgate dalla fonte da cui nasce ogni autentico gesto creativo: la vita spirituale, che, comune all’umano di ogni latitudine, è ciò che unisce veramente le persone. La si riconosce quando, ascoltando un pezzo, qualcosa in noi si trasforma, la pelle d’oca lo manifesta, come fa la bellezza se non è un cartonato della vita, una comunicazione senza comunione, un incantesimo senza incanto. Forse è un po’ inevitabile a causa del sistema che mette in competizione e in discussione l’ispirazione artistica: Tenco si è tolto la vita anche per questo, proprio a Sanremo, e del potere della tv di svuotare i linguaggi e falsificare i bisogni della gente ha detto tutto Pasolini negli stessi anni.
Comunque sia noi di Sanremo abbiamo bisogno perché è San Remo: se manca il patrono un Paese non esiste, manca ciò che unisce gli uomini, il sacro, cioè, fuor di metafora, ciò che riceviamo dal passato e con cui dobbiamo fare i conti per rinnovarci. Che cosa fonda la nostra comunità e ci fa appartenere a questo Paese tanto da volerlo custodire e far crescere insieme? In un tempo in cui, individualisticamente slegati, ci sembra di non appartenere a nulla e nessuno, abbiamo ancor più bisogno di simboli (parola che significa “unire ciò che è separato”). Quali sono i nostri? Lo sport e la canzoni, in tv. È sempre più difficile trovare unità e gioia negli spazi dove la vita si svolge ogni giorno (città, scuola, cultura…) e non appartenere soltanto a supermercati, piattaforme streaming o social. Sarebbe bello fare città, civitas, comunità e civiltà, in posti in cui ci si trattiene e non solo ci si intrattiene, in cui si costruisce e non solo si consuma. Ma se ci uniamo per qualche sera, disposti a tardare davanti al teleschermo pur lavorando l’indomani, è perché ne abbiamo bisogno, o almeno ne ha avuto bisogno un italiano su sei, gli altri cinque cercano altrove. Ma, quando lo spettacolo è finito, quell’italiano aveva più vita o più sonno? Torna a lavorare, come dice amaramente la canzone dei miei conterranei, “per non stare” con chi ama, o invece ha ricevuto energie nuove per amare meglio chi ha accanto? Abbiamo fatto comunità o solo ascolti?
Comunque sia ci aggrappiamo ancora all’arte per sapere se c’è un altro mondo, bello e unito, a cui appartenere, un mondo ancora da fare e in cui si può ancora cantare insieme per spostare la morte più in là.
Corriere della Sera, 13 febbraio 2023 – Link all’articolo e ai precedenti
Grazie
Una lettura che , come sempre, mi incanta e mi fa vedere ció che non ho visto. Grazie
Le canzoni intessono di poesia la vita ,alimentano le nostre passioni,ci danno una marcia in più, per questo nei regimi dittatoriali non sono gradite