Ultimo banco 138. Venire al mondo
“Gentile Preside e Professori, con la presente desidero condividere il motivo del mio abbandono del liceo e del sistema scolastico tradizionale, con la speranza di lasciare uno spunto di riflessione per migliorare, nei limiti del possibile, le modalità di insegnamento e i requisiti della scuola. Imparare mi ha appassionato fin dai primi anni delle elementari, studiavo volentieri e in fretta. Quest’anno, però, mi sono sempre più allontanato dall’apprendimento scolastico, anche delle materie che più mi interessano. Trovo che la scuola mi imponga uno studio eccessivamente nozionistico, spesso privo di logica. Questo durante ore in cui il disagio fisico e psicologico di stare in classe si sommava alla noia derivata da lezioni quasi esclusivamente frontali. Mi trovavo a dover recepire un gran numero di informazioni passivamente, spesso con imposizioni contrarie al mio metodo di memorizzazione e ascolto”. Così inizia la lettera di un 17enne che alla fine dell’anno scolastico passato ha deciso di studiare autonomamente. Le sue parole mi hanno aiutato a riformulare il dibattito sul merito, che diventa sterile (il merito è di destra o di sinistra? la meritocrazia è capitalismo aziendale o giustizia sociale?) quando è sganciato dalla vita reale della scuola: non voglio parlare di “scuola del merito” ma di “merito della scuola”. Detto altrimenti: la scuola, così com’è, serve? La lettera continua così.
“Molti insegnanti pensano che un alunno ascolti seriamente solo se è seduto a prendere appunti. Ognuno però possiede metodi diversi che andrebbero valorizzati per permettere un apprendimento migliore. Ho quindi iniziato a vedere nella scuola non un luogo dove viene diffusa la conoscenza e l’obiettivo è la crescita della persona per prepararla al futuro, ma un luogo in cui quello che conta sono le ore, in cui non si considerano le peculiarità ma si mira a uniformare verso la mediocrità. Così è maturata in me la decisione di abbandonare la scuola tradizionale, ma non lo studio, che mi appassiona e mi porterà a proseguire all’università e al lavoro. Ringrazio comunque tutti voi per quest’anno che mi ha permesso di comprendere meglio me stesso e ciò che desidero per il mio futuro”.
Non posso giudicare la scelta di questo ragazzo, ma la lettera affranca “il merito” dalle astrazioni prive di vita. Merito, dal greco meris, è la parte, porzione che toccava a ciascuno in una distribuzione, tanto che dalla stessa parola si formava il verbo per dire distribuire (il nostro s-partire, fare le parti) e quello per dire parte-cipare (prendere una parte). Ma meris significava anche cura, aiuto e occupazione. “Il merito” non indica quindi “la prestazione” ma “la parte/cura” da dare a ciascuno e che non è la stessa per tutti. Una scuola che non riesce a dare la parte/cura che spetta a ognuno sulla base della sua situazione, storia e possibilità non è equa.
Io faccio il maestro per dare, attraverso quel che insegno, a ogni ragazzo ciò che serve a lui e solo a lui per diventare se stesso, non per tenere conferenze, dare test o compilare moduli: il mio motto è più carne e meno carte. Questo ragazzo soffre, come molti, l’uni-formazione che dà a tutti la stessa “parte”, ma educare non è addestrare (inevitabile nel sistema scolastico come è strutturato) ma risvegliare il maestro interiore, cioè rendere ognuno capace di educare se stesso (libero), scegliendo ciò che fa crescere e rifiutando ciò che fa regredire. Può riuscirci, non una scuola-catena di montaggio che tratta tutti allo stesso modo, ma una scuola-bottega in cui ciascuno riesce a trovare il suo stile unico: il “mio merito (partee cura) nel mondo”, che ci sto a fare qui. La scuola è il luogo della scoperta della propria ispirazione, l’energia che interrompe l’oscillazione immatura e sfinente tra dovere e piacere, che dà il coraggio di vivere e rende capaci di scegliere il proprio destino, il contributo che io e solo io posso dare al mondo: chi è ispirato va incontro alla vita, altrimenti va solo contro la vita.
La scuola per Socrate era “tempo libero” (il significato della parola greca scholè), cioè non il tempo in cui l’essere è solo vivente (necessità primarie), ma è anche vivo, perché si dedica a quelle che lui chiamava “cose degne d’amore” (il vero, il bello, il giusto), cioè che danno vita alla vita, le danno un senso, quelle che noi maestri studiamo e trasmettiamo. Così a ogni ragazzo è data la possibilità di entrare “in risonanza” con il pezzo di mondo che lo chiama a partecipare (dare il suo contributo), ma la risonanza non accade senza una relazione reale con l’altro così come è. Socrate fu condannato a morte con l’accusa di insegnare “nuove divinità” ai giovani, perché li aiutava a scoprire la voce divina, daimon, che abita in ciascuno e vuole nascere in noi.
Funzionano le scuole in cui i maestri partecipano a questa causa socratica, vitale per una comunità. Ma può ispirare solo chi è ispirato. Il sistema scolastico spesso non permette a noi Maestri di entrare nel “merito” di ciascuno, cioè aiutare i discepoli a ricevere la loro irripetibile parte/cura. Diversificare si può, permettendo ai ragazzi delle opzioni (discipline e docenti) all’interno del percorso scelto e in linea con il proprio stile di apprendimento. L’intelligenza non è fissa e unica (misurabile con il QI), ma è un processo relazionale (misurabile in base alla qualità della relazione) e diversificato – come Howard Gardner ha dimostrato – in nove stili (intrapersonale, interpersonale, linguistico-verbale, logico-matematica, musicale, naturalistica, visivo-spaziale, corporeo-cinestetica, filosofico-esistenziale) che, in base al principale, generano la vocazione (la scuola non serve a trovare il lavoro ma la vocazione da trasformare in lavoro).
L’abbandono di un ragazzo che ama studiare ferisce quanto i numeri della nostra dispersione scolastica (13%, terzultimi in Europa, peggiori di noi Romania e Spagna), che colpisce soprattutto gli indirizzi tecnico-professionali e si riflette sui neet (giovani tra 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, non si formano): il 25% (dietro di noi Montenegro, Macedonia e Turchia). La scuola o è relazionale (cercare di dare a ognuno ciò di cui ha bisogno: il merito) o abbandona ed è abbandonata.
Mia nipote, filosofa tascabile cinquenne, l’altro giorno si è ribellata all’ipotesi che sua madre non fosse mai nata e quindi neanche lei: “Io in questo mondo voglio esserci, non voglio non esserci!”. Per esserci ognuno deve poter fare la sua parte, cioè “venire al mondo” sempre più: il merito della e nella scuola è permettere che ciò accada.
Corriere della Sera, 21 novembre 2022 – Link all’articolo e ai precedenti
[…] Merito, dal greco meris, è la parte, porzione che toccava a ciascuno in una distribuzione, tanto che dalla stessa parola si formava il verbo per dire distribuire (il nostro s-partire, fare le parti) e quello per dire parte-cipare (prendere una parte). Ma meris significava anche cura, aiuto e occupazione. “Il merito” non indica quindi “la prestazione” ma “la parte/cura” da dare a ciascuno e che non è la stessa per tutti. Una scuola che non riesce a dare la parte/cura che spetta a ognuno sulla base della sua situazione, storia e possibilità non è equa https://www.profduepuntozero.it/2022/11/22/ultimo-banco-138-venire-al-mondo/ […]
Grazie Alessandro, sono insegnante anch’io e condivido in pieno quello che dici