Ritratto d’autore: Cristo
Per la serie di Ritratti d’autore del Corriere della Sera
Un’irrequieta bambina delle elementari che si placava solo nell’ora di disegno era ancora intenta sul foglio quando il tempo della consegna, disegnare la persona più cara, era ormai scaduto. Mentre tutti i bambini avevano già finito, la bambina continuava il suo lavoro ignorando i richiami della maestra. Alla domanda indispettita: «Ma chi stai ritraendo?», rispose: «Dio». Alla maestra che ribatté con ironia: «Ma Dio nessuno l’ha mai visto!», la bambina disse: «Se mi lascia finire, fra poco lo vedrà». L’episodio scolastico mi è tornato in mente quando ho accettato di comporre uno dei ritratti d’autore dedicati al proprio mito. Io ne ho solo uno: Cristo. E l’unico modo che ho per farne il ritratto è provare a raccontare il rapporto con lui, e non perché sia rilevante, ma perché il suo volto si mostra solo in modo relazionale: lo vedi nella misura in cui rispondi al suo sguardo.
Nietzsche, Marx e Freud hanno mostrato che la religione è spesso l’illusione di un mondo oltre il mondo per rendere accettabile la durezza del vivere costringendo la ragione allo stato infantile. Eppure, da bambino, del divino mi affascinò il contrario. In chiesa vidi l’immagine di un uomo che ne aiuta un altro schiacciato da una trave: si trattava di un contadino di Cirene che sorregge un condannato alla crocifissione, Cristo. Quell’immagine non mi consolava, mi guardava e sfidava. Era il contrario di un tranquillante: Cristo non mi ha protetto dalla vita, mi ci ha spinto dentro o contro. Per un certo tempo anche io ho vissuto il rapporto con Dio secondo il meccanismo al cuore del sacro in ogni tempo: il sacrificio, cioè io rinuncio a qualcosa per Dio, così lo controllo e mi protegge. Cristo invece dice: «Misericordia io voglio e non sacrificio»(Mt 9), ponendo fine al rapporto commerciale e sacrificale con Dio (se fai il bravo e ti sacrifichi per lui, Dio ti ama) e inaugurandone uno gratuito (Dio già ti ama, non vuole niente se non che tu lo sappia e lo sperimenti). Cristo è stato ucciso perché metteva in crisi il sistema sacrificale e di potere degli uomini, per restituire all’uomo l’energia creativa e libera dell’amore al posto di quella distruttiva e ripetitiva del potere: non domino dunque sono (qualcuno), fonte di ogni violenza e frustrazione, ma sono amato dunque (vado bene come) sono, fonte di ogni creatività e crescita. Per questo un giorno ho compreso il paradosso di Dostoevskij: «Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». In una situazione molto dolorosa in cui «la verità» e Cristo si separavano, seguendo Cristo, ho scoperto che quella che ritenevo verità era solo una mia ideologia utile a sentirmi sicuro o migliore, gonfiava il mio ego e copriva la mia mancanza di amore. Per questo non amo il binomio credente/praticante che riduce la fede da relazione a prestazione. È come chiedere a un innamorato: credi alla tua amata? E la frequenti? O ami o non ami, non è un hobby ma la vita intera: più sei innamorato più diventi attivo, creativo, attento. E si vede, non devi dirlo. Essere amati e amare (cioè ri-crearsi e ri-creare il mondo, ogni giorno, con l’inventiva e l’energia che l’amore ha e dà) è l’unico modo che ho trovato per godermi la vita. Cristo, se è Dio fatto uomo, non è la favola che spinge a puntare sull’aldilà, ma una sfida lanciata all’aldiquà. Cristiano non significa buono, serioso, angelico, perfetto, ma imperfetto, sveglio, inquieto, innamorato, creativo, combattivo, di buon umore, nei limiti dei propri limiti che diventano bellezza, come il ruscello che feconda i campi correndo negli argini e cantando quando trova un ostacolo.
Come accadde al Cireneo che vidi da bambino non solo mi sento dire: «Dammi una mano, guardati intorno, non scappare, moltiplica la vita in e attorno a te», ma nascono in me energie che vincono la mia pigrizia, indifferenza ed egoismo. E soprattutto la noia. Per me Cristo è adrenalina non oppio, vita che sveglia la vita: inferno, purgatorio e paradiso non sono posti in cui andrò, ma posti in cui sono già in base a quanto amore (vita) ricevo e do. E nessuno come Cristo — e coloro che me ne hanno mostrato il volto, dai miei genitori a don Pino Puglisi (professore di religione della mia scuola, ucciso dalla mafia all’inizio del mio quarto anno di liceo) — mi ha fatto scoprire l’eros della e per la vita. Da Cristo ho imparato la distinzione tra essere vivente ed essere vivo. Mi trovo bene con uno che «salva» il mondo, spendendo trenta di trentatré anni a fare il falegname in un paesino sperduto. Per essere pienamente me stesso non conta che parte io reciti nel teatro del mondo, ma se vivo tutto per amore e per amare. Non è un modo per farmi piacere la vita — ne scorgo e soffro i limiti con il dolore che la passione per la bellezza comporta — ma per non voltarmi dall’altra parte. Anche in croce Cristo non smette di amare, la sua «passione» è eros per l’uomo e per Dio. E anche io voglio vivere sempre di e con «passione», libero dall’illusione che la felicità consista nel proteggersi dal male e dal dolore, quando è invece vivere tutto, anche il dolore e il male, per e con amore. Così sto a poco a poco imparando a sostituire la domanda «perché mi accade questo?» con «che ci faccio con questo che mi accade?», perché al momento della morte vorrei poter dire: «nulla è andato sprecato». Non so com’è che tutto ciò avvenga, succede grazie alla relazione quotidiana con lui, che più che una presenza è una mancanza: la mia preghiera preferita è «mi manchi». Ma proprio la mancanza mi rende vivo, come testimonia nel suo Diario Etty Hillesum, ebrea morta nel lager che, ribaltando la prospettiva del «dato questo orrore non si può credere in Dio», scriveva nel 1942: «L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio… E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te». E così si impegna a renderlo presente agli altri in quell’inferno, non usando il male come alibi per fare altro male o per disperarsi, ma per superarlo con un bene, anche minuscolo. Infatti nella stessa pagina Etty annota: «Adesso apparecchio la tavola». Dove qualcuno apparecchia per amore c’è Cristo, cioè Dio che s’incarna in chi glielo permette vivendo con «passione» ogni situazione.
Risolvendo in anticipo il paradosso di Dostoevskij, Cristo ha detto di essere lui stesso la verità, e non perché lo riducessimo a religione, libro o regole, ma perché in lui verità e vita sono la stessa cosa. In che modo? Nel vivere tutto come relazione, che per Lui è la relazione d’amore con il Padre e con gli uomini: egli è sempre generato dal Padre come figlio e uomo, cioè è sempre ri-generato, persino quando muore. Anche io, attraverso i vissuti quotidiani della relazione (gesti, i sacramenti; dialogo, parole e silenzi della preghiera; e amici, la vera chiesa), vengo sempre ri-generatocome figlio e uomo, cioè come uno che riceve, in ogni istante, quello di cui ha bisogno per vivere per amore e per amare, anche quando sono schiacciato dai miei limiti, paure, ferite, fallimenti… Così resto libero perché non mi identifico in qualcosa che rappresento, che ho o so fare (o che non ho e non so fare), o che mi capita, perché so a chi appartengo e chi sono: non devo affermare me stesso, perché sono già «affermato» dall’amore. Devo solo imparare ad amarmi e amare nella misura in cui sono amato.
Per Freud, Marx o Nietzsche forse sono un illuso, ma io Cristo me lo tengo stretto, come Dostoevskij. Non mi serve a farmi piacere la vita, ma a fare della vita un piacere, come quella donna che, in una nazione asiatica dove i cattolici sono un migliaio, si è presentata dal sacerdote chiedendogli il battesimo. Lui, stupito perché la donna non sapeva nulla della fede, le ha chiesto come mai, e lei ha risposto mostrandogli un crocifisso: «Perché con lui mi trovo bene». Nel tempo ho scoperto che mentre si cerca di fare il ritratto al Dio invisibile, come la bambina del disegno, si dà il meglio di sé, perché Dio non è il fine dei nostri desideri ma l’origine, e quindi, in verità, è Lui che fa il ritratto a noi, solo che usa i colori che noi preferiamo. Così il suo ritratto si rivela essere anche il mio e il nostro, come nel sorprendente Autoritratto che Albrecht Dürer dipinse nel 1500 identificandosi con Cristo o come il monaco e pittore Epifanio che, non riuscendo a trovare un modello adatto per dipingerne il volto, decise di prendere il tratto più vero di ogni persona che incontrava: il sorriso di un bambino, la tristezza di una prostituta, la malinconia di un mendicante, la gioia di un’innamorata, il dolore di una madre in lutto, la forza di un contadino… Come posso quindi ritrarre Cristo? Con la poesia che Raymond Carver, scrittore americano morto di tumore a 50 anni, ha voluto fosse incisa sulla sua lapide, poesia che lui stesso aveva scritto: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra».
Corriere della Sera, 24 settembre 2022 – Link all’articolo
Io non sono credente, ma vorrei lasciarti qui una poesia di una poetessa poco conosciuta e profondamente credente,
in cui si rivolge a Cristo. Si intitola “Dimmi che non sarà la morte” .
Sarà come incontrarti
Per le strade di Galilea
E sentire il battito di luce
Delle tue pupille divine
Riscaldare il mio volto.
Sarà la tua mano
A prendere la mia
Con un gesto d’amore
Ignoto alla mia carne.
Sarà come quando parlavi
A chi era respinto
Per i suoi peccati.
Sarà come quando perdonavi.
Dimmi che non sarà la morte
Ma soltanto un ritrovo
Di amici separati
Da catene d esilio.
Dimmi che non saranno
Paludi d’ombra
a sommergermi
Né acque profonde
A travolgermi.
Solo il tuo volto
Solo il Tuo incontro, Signore.
Ogni volta che la leggo mi commuovo perché è così che, illudendomi, spero che sia la morte.
19 gennaio 1948 – Con intima dolcezza:
«Al momento della morte dei miei amici, non credi che io venga a prenderli dolcemente? con le
delicatezze che tu conosci? per introdurre l’anima loro nel mio Regno?
Non faresti altrettanto tu, per godere della loro sorpresa e della loro gioia, all’ingresso di una delle tue
belle case? Allora io, Dio, che amo di più, che possiedo di meglio, come potrei disinteressarmi della loro
uscita dal tempo? Tutto quel che puoi immaginare sul fascino del mio cuore innamorato, neppure si
avvicina alla realtà!
Ricorda che ho voluto la vostra gioia tanto da essere disceso a conoscere la sofferenza.
E quando vi vedo soffrire, e soffrire uniti a me, raccolgo ognuna delle vostre sofferenze con grande amore, come se le vostre avessero superato le mie, come se le vostre avessero un valore che il
mio cuore vorrebbe rendere infinito.
Ed è per questo che, quando me lo permettete, io voglio fondere la vostra vita nella mia».
(Da “Lui e io – Diario di Gabrielle Bossis”)
“«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?» (Gv 11,25-26). È quello che Gesù ripete ad ognuno di noi, ogni volta che la morte viene a strappare il tessuto della vita e degli affetti. Tutta la nostra esistenza si gioca qui, tra il versante della fede e il precipizio della paura. “Io non sono la morte, io sono la risurrezione e la vita, credi tu questo?, credi tu questo?”.”Siamo tutti piccoli e indifesi davanti al mistero della morte. Però, che grazia se in quel momento custodiamo nel cuore la fiammella della fede! Gesù ci prenderà per mano, come prese per mano la figlia di Giairo, e ripeterà ancora una volta: “Talità kum”, “Fanciulla, alzati!” (Mc 5,41). Lo dirà a noi, a ciascuno di noi: “Rialzati, risorgi!”.
Nel finale l’invito di papa Francesco a “chiudere gli occhi e pensare a quel momento della nostra morte, ognuno di noi pensi alla propria morte, si immagini quel momento, che avverrà, quando Gesù ci prenderà per mano e ci dirà, ‘vieni con me, alzati’, li finirà la speranza e sarà la realtà della vita. Gesù prenderà ognuno di noi con la sua tenerezza, la sua mitezza, con tutto il suo cuore. Questa è la nostra speranza davanti alla morte. Per chi crede, è una porta che si spalanca completamente; per chi dubita è uno spiraglio di luce che filtra da un uscio che non si è chiuso proprio del tutto. Ma per tutti noi sarà una grazia, quando questa luce ci illuminerà”.”
(Da “Al momento della morte Gesù ci prenderà per mano: ‘Vieni, alzati’» Udienza di Papa Francesco di mercoledì 18 ottobre 2017 https://www-avvenire-it.cdn.ampproject.org/v/s/www.avvenire.it/amp/papa/pagine/udienza-del-18-10-2017?amp_gsa=1&_js_v=a9&usqp=mq331AQKKAFQArABIIACAw%3D%3D#amp_tf=Da%20%251%24s&aoh=16645250121187&csi=1&referrer=https%3A%2F%2Fwww.google.com&share=https%3A%2F%2Fwww.avvenire.it%2Fpapa%2Fpagine%2Fudienza-del-18-10-2017)
Professore Alessandro, che cosa esprimere dopo il prorompere del tuo narrare?
Non è illusione, apparenza, ma Verità che risveglia e scuote.
Non nego di sentirmi smarrita, intorpidita in date evenienze e di agognare silenzio, placidita’, mansuetudine, docilità, tutte disposizioni di mitezza, ma leggere che nel tuo scrivere troneggia amare, essere amati, mi fa trasalire ed esclamare: mi sento amata da te, Professore CGE scrivi ed in grado di propagare tale amore, di essere insieme, amante ed amata.
Ed è sicuramente, Eros che più, ascenderà ad Aga’ PE.
Bellezza in questa serata partecipò, non effimera, ma carnale, carne ed ossa di Lui che ha dato la vita per fare vivere,ma soprattutto, fare rivivere, risorgere per chieder cin stupore in una vita avventurosa, trepidante, non noiosa. Tornero’ ancora su tale tema, non fatua Cristologia, ma Cristo, Dio che si rende visibile.
Federica con Tensione all’ amore,filein
Ritrovo quello che può essere l’esperienza di Cristo presente e compagnia reale nella vita espresso in modo incredibile in un’aria dell’opera Andrea Chenier (https://www.youtube.com/watch?v=-oX7EFYokRE )
“Vivi ancora
Io son la vita
Ne’ miei occhi e il tuo cielo
Tu non sei sola
Le lacrime tue io le raccolgo
Io sto sul mio cammino e ti sorreggo
Sorridi e spera! Io son l’amore!
Tutto intorno è sangue e fango
Io son divino! Io son l’oblio!
Io sono il dio che sovra il mondo
Scendo da l’empireo, fa della terra
Un ciel! Ah!
Io son l’amore, io son l’amor, l’amor”
ARTICOLO GENIALE DI UNA CAPACITA’ DI ESPORRE CHE COINVOLGE E FA RIFLETTERE.
QUESTO ARTICOLO ANDREBBE FATTO LEGGERE AI SACERDOTI SIA NOVELLI CHE NO E PORTATO NEI SEMINARI DELLA DIOCESI.
LA CHIESA AMBROSIANA STA SFORNANDO “AMMINISTRATORI DI CONDOMINIO” NON SACERDOTI CHE, PER LORO VOCAZIONE DOVREBBERO ESSERE PORTATI A TESTIMONIARE E DIFFONDERE IL VANGELO
9 febbraio 1950
“La vita non ha altro scopo: servire e amare il proprio Dio. È così che voi imitate la mia vita terrena, tutta
trascorsa nel servizio e nell’amore di mio Padre. Niente vi porterebbe più vantaggio che il riprodurre in
voi la Bontà, la Bellezza dei miei tratti. Contemplateli nel Vangelo. Ve ne spiegherò il senso, rallegrandomene, come si rallegrerebbe un padre di
famiglia se, avendo messo il proprio ritratto alla portata dei suoi figli, uno di loro venisse a contemplarlo
per attingervi forza d’amore e stimolo alla sua volontà.
Ah! che si possa dire di tutti i miei cristiani: “Essi sono il ritratto vivente del loro Padre!”.
Quale gioia per il Padre!”
2 marzo 1950 – Ora santa. Nantes.
«Metto ciò che occorre nei tuoi pensieri, sfogliali uno ad uno ed essi andranno agli altri, impregnati del
mio fortificante profumo. Sai qual è questo profumo? È il sentimento di essere amato da Dio, è credere
che egli si occupa di voi con la più grande cura. Tutte le nostre righe lo ripetono e risvegliano la vostra
fiducia. È questa la gloria di Dio: la fiducia dell’uomo. E il regno di Dio è l’amore dell’uomo».
(Da “Lui e io – Diario di Gabrielle Bossis”)
GRAZIE di cuore!