15 giugno 2021

Ultimo banco 83. Fuga in Polinesia

Un bambino di sei anni, figlio del fabbro di un paesino francese di pochi abitanti, tutte le notti un vecchio appare in sogno per insegnargli una lingua misteriosa. Il bambino, nato nel 1948, si chiama Marc Liblin e vive a Luxeuil, nota per l’antica abbazia e le acque termali. Nessuno gli crede fino a che alcuni ricercatori dell’università di Rennes, in Bretagna, incuriositi, decidono di studiare il caso, senza però riuscire a decifrare la lingua che Marc, ormai 33enne, parla fluentemente… ma proprio in un bar di Rennes un vecchio marinaio lo sente parlare e riconosce la lingua di un’isola della Polinesia francese in cui era stato: Rapa Iti, 50 km quadri sperduti al centro del Pacifico, su cui oggi vivono 500 abitanti.

Il lupo di mare conosce anche una donna nata su quell’isola che — il caso non esiste — abita proprio lì vicino: si chiama Meretuini Make, abbandonata dal marito, un militare francese che l’aveva portata via dall’isola e sposata, è rimasta a vivere in Francia. Quando bussano alla porta e Marc le parla nell’idioma dei suoi sogni, lei risponde nella lingua che le aveva insegnato suo nonno (forse il vecchio del sogno di Marc): era l’antico idioma di Rapa Iti. I due è come si conoscessero da una vita, si sposano e ritornano sull’isola sperduta nel Pacifico, dove Marc all’inizio desta sospetti perché è uno straniero che parla la lingua sacra degli antenati: un vero e proprio sacrilegio. Ma a poco a poco riesce a farsi accettare: la coppia avrà 4 figli e vivranno felici per 16 anni a Rapa Iti, fino al 1998, quando Marc muore per un tumore, a soli 50 anni.

Questa storia è tutta vera e la racconta Judith Schalansky nel bel libro Atlante delle isole remote.

Quando l’ho letta mi sono interrogato su due cose: l’anima gemella e il linguaggio degli amanti.

L’anima «gemella», se esiste, di sicuro parla la tua stessa lingua, una lingua necessaria a «ri-conoscersi» («mi sembra di conoscerti da una vita» si dice) come Marc e Meretuini. Mi è tornato allora in mente Gary Chapman, autore della nota serie di libri sui 5 linguaggi dell’amore. Secondo l’autore ciascuno di noi impara, sin da bambino, a riempire il proprio serbatoio d’amore in base a uno dei cinque modi prevalenti in cui l’amore ci raggiunge: gesti di servizio, momenti speciali, parole di incoraggiamento, doni e contatto fisico. C’è chi si sente amato quando riceve gesti di aiuto concreti (faccende molto ordinarie); c’è chi si sente amato grazie a momenti di condivisione speciale (cene, passeggiate, gite…); c’è chi ha bisogno di ricevere parole di stima (sei bello/a, sono fiero/a di te, ma come ci riesci?); c’è chi usa il linguaggio dei doni (anche solo simbolici come un fiore); c’è chi infine ha bisogno del tatto (pacche, carezze, baci, abbracci…). Tutti parliamo questi 5 «dialetti» dell’amore ma solo uno o due sono per noi fondamentali per «sentirci» amati.

Spesso chi ci ama lo fa nella sua lingua dominante, ma a noi quell’amore non arriva: ci sta dicendo «ti amo» in una lingua che non pratichiamo. Il segreto di un amore «efficace» (coppia, amicizia, fraterno…) è conoscere il o i linguaggi prevalenti dell’altro e tradurre il proprio amore in quella lingua.

Ricordo un amico la cui moglie parlava la lingua dei gesti di servizio e si sentiva amata quando lui, per esempio, lavava i piatti, mentre lui usava prevalentemente il proprio linguaggio, il contatto fisico. Quando capì che per la moglie i piatti erano come un bacio e cominciò a lavarli più spesso, benché gli costasse, la moglie cominciò di pari passo a parlare la lingua del «contatto fisico» in risposta ai suoi «gesti di servizio». Amare è imparare a parlare la lingua di un altro, come accadde a Marc grazie ai suoi sogni di bambino, sogni che lo avevano preparato al grande amore della vita.

Alla fine dell’anno ho dato ai miei studenti un questionario per determinare l’ordine di importanza dei loro cinque linguaggi dell’amore. Hanno capito che spesso non si intendono con qualcuno perché parlano lingue diverse. Un’alunna ha sbottato: «Mio padre non sa parlare i linguaggi di cui io ho più bisogno». Allora li ho invitati a ipotizzare i linguaggi dominanti dei genitori, per poi sottoporre il questionario anche a loro. Il tutto si è concluso con l’impegno di esercitarsi nel parlare, lungo questa estate, ogni giorno, almeno una volta, il linguaggio prevalente di un altro familiare, per scoprire quanto dia felicità sforzarsi di parlare la lingua altrui e non solo aspettarsi che gli altri parlino la nostra.

Questa comunicazione che decentra da se stessi e porta ad aprirsi all’altro così com’è, riempie d’amore anche noi, tanto quanto se non di più di quanto faccia l’amore che riceviamo (è proprio vero che c’è più gioia nel dare che nel ricevere). Quest’estate, in cui potremo viaggiare poco all’estero, magari scopriremo che la Polinesia è più vicina di quanto crediamo…

Corriere della Sera, 14 giugno 2021 – Link all’articolo e ai precedenti

10 risposte a “Ultimo banco 83. Fuga in Polinesia”

  1. Enrica Cresta ha detto:

    Ho letto con interesse e penso che per una relazione vera e duratura debbano trovare spazio tutti quelli che Lei definisce linguaggi e che sono i vari modi in cui si dimostra amore.
    Li vedo tutti indispensabili, nel giusto equilibrio.
    Nemmeno l’amore ( come l’uomo di Marcuse….) deve essere ” ad una dimensione”, vero?
    Grazie per gli articoli, che attendo con gioia ogni lunedì sul Corriere.
    Enrica Cresta

  2. fabio giaccaglia ha detto:

    grazie per avermi riportato ai rocordi di quando ho scoperto il mio linguaggio d’amore leggendo il libro di Chapman.
    Volevo chiederle se posso far pubblicare questo articolo sulla rivista dell’associazione Incontro Matrimoniale di cui faccio parte. Questa associazione si occupa del dialogo e la cura della relazione di coppia. http://www.incontromatrimoniale.org

  3. fabio giaccaglia ha detto:

    scusi mi è partita la mail senza saluti e ringraziamenti per la sua attenzione.
    cordialmente
    fabio Giaccaglia

  4. mariagrazia ha detto:

    Incuriosita dalla lettura “rivedevo”
    i paesaggi di Gauguin,
    ll Vecchio e il mare di Hemingway e infine,
    anche per me,
    “l’impegno di esercitarMi nel parlare, …il linguaggio prevalente di un altro… sforzaNDOMi di parlare la lingua altrui e non solo aspettarMi che gli altri parlino la MIA”.
    Ho come l’impressione che questa consegna contenga un alto rischio di “contagio di amare”, che potrebbe diffondersi oltre l’ambito familiare.
    Che bel regalo! Grazie Prof., buona Estate

  5. paola pagliano ha detto:

    Caro Alessandro,
    con questo Ultimo Banco
    Ti sei superato (e non è facile)
    Buone vacanze

  6. Alby ha detto:

    Per me i linguaggi dell’amore sono più numerosi di quelli proposti da Chapman, anche la gelosia e’ un importante linguaggio dell’amore non per forza negativo, la complicità, la confidenza.
    Spesso un amico/amica sa più cose del tuo passato che il marito/moglie/fidanzato/a ecc…una coppia è pur sempre formata da due estranei che si sono trovati per caso tra milioni di persone..

  7. rita ha detto:

    Quello che mi ha colpito di più di questa storia – che mi auguro davvero sia corrispondente a verità – è l’importanza dell’intuizione ( la lingua imparata in sogno ) nella vita. Mi sembra un fatto straordinario e mi chiedo se nella nostra realtà pur così creativa e aperta al nuovo potrebbe essere possibile un evento del genere: non un romanzo scritto sull’argomento, ma un amore che nasce da questa nostra umana facoltà che ci trascende e che ci vuole felici. Siamo capaci, noi occidentali, a vedere e vivere Dio incarnarsi davvero nella nostra vita così difforme e fuor di squadra?

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