Ultimo banco 80. Il segreto per riuscire
«Ma più che il valicare il mare, è duro ciò che ti costrinse a passarlo» canta il poeta arabo siculo Ibn Hamdis nel suo Canzoniere. La vita ci costringe a «uscire» (da uscio, porta di casa) e altrettante volte a tornare. Anche quando navighiamo in rete prima o poi torniamo sull’icona home. Ma che cosa è più importante: uscire o tornare? Omero ha risposto in modo inequivocabile: vivere è tornare a casa. Ma quale casa? Mi ha posto la domanda una studentessa universitaria di matematica durante un recente incontro. Avevo chiesto a chi volesse di mandarmi delle domande per una conversazione online, un’ora di scuola a porte aperte (chiunque poteva affacciarsi e ascoltarci). Ho ricevuto centinaia di domande e le 20 che ho scelto per la mia classe ideale abbracciavano tutte le età (dai 12 agli 80 anni) e provenienze. La prima domanda è stata proprio questa: «Ti è mai capitato di perderti? E come hai trovato casa? E che cosa è casa?». Perdersi è una costante della vita umana, un modo come un altro di dire: uscire. E se «perdersi» è la forma riflessiva di «perdere», allora, per contrasto, «casa» significa «possedere» e «possedersi». Infatti «abitare» viene dal latino habeo (avere) ma nella forma frequentativa: continuare ad avere, possedere sempre. Questo è casa: ciò che sempre si possiede, non un tetto ma una vita a cui poter far sempre ritorno. Perdersi e abitare sembrano quindi due poli dell’esistenza umana che deve «perdere» quello che le impedisce di fiorire, ma proprio quel perdere/perdersi è il primo passo per (ri-)trovare casa. La casa è infatti ciò che non si perde mai: non un luogo ma un modo di essere. Dante si perde nella selva oscura ma lì comincia il ritorno a casa, Renzo e Lucia si perdono ma trovano una casa (si accasano) altrove, Pinocchio perde Geppetto ma la sua ricerca lo farà diventare un bambino vero… La letteratura e le fiabe, da Ulisse a Pollicino, raccontano di gente che deve «uscire», «perdersi» e «tornare» al vero «uscio» di casa, una vita nuova. E, come scriveva Chesterton, il miglior modo per scoprire la propria casa è uscire dalla porta principale, andare sempre dritto e rientrare dal retro, dopo aver fatto il giro del mondo.
La domanda sul perdersi e ritrovare casa, mi ha fatto pensare a una recente richiesta di una alunna. In quest’anno ho potuto fare, grazie agli strumenti per la Dad, tanti colloqui pomeridiani a tu per tu con i miei studenti, per portare avanti il lavoro di orientamento personale che va dalle passioni e attitudini da scoprire/coltivare al consiglio di libri mirati, dai momenti di recupero individuale alla cura di situazioni di crisi. Purtroppo non è possibile fare tutto questo nell’orario scolastico, anche se dovrebbe essere la normalità del percorso. La mia studentessa mi chiedeva di poter parlare di alcuni aspetti relativi al suo futuro (e di che altro vogliono parlare i ragazzi?), in vista del quale qualcosa la frenava: «Non riesco a essere chi sono, forse perché non lo so». L’adolescente è per definizione colui che deve «uscire» di casa, «è perso» perché deve «perdere» l’illusione infantile che la vita non abbia limiti, che invece sono necessari a scoprire chi siamo e di che cosa siamo portatori. Questo perdersi oggi viene problematizzato come se fosse una malattia da cui guarire, con il conseguente senso di colpa dei ragazzi, quando si tratta invece della sofferta benedizione della loro età, la sua dolorosa normalità. La mia alunna chiedeva la cosa più bella, una casa: «Abitare», possedersi. Perdere le mura costruite dai genitori o dalla cultura che respiriamo è doloroso ma uscirne è necessario a trovare la propria casa. Chi non si possiede (non si conosce) non ha il coraggio di uscire e finisce con l’indossare maschere (idoli della conoscenza di se stessi) per farsi accettare, ma spesso perdersi è solo togliere una di quelle maschere per avere il proprio volto. Le ho detto di non aver paura, confidandole che le volte che mi sono perso è arrivata sempre una benedizione, perché mi sono liberato da qualche prigione interiore e ho trovato dove abitare, cioè ciò che «possiedo sempre» e non mi può essere mai tolto: le relazioni fondamentali (sono sempre figlio, fratello, zio, amico) e ciò per cui sono fatto (sono sempre maestro e scrittore), e questo fa della mia vita interiore la casa a cui torno e che trovo sempre nuova, perché ogni volta che torno me ne riapproprio in modo nuovo.
Posso tornarci sempre perché sempre mi appartiene, e ci devo tornare soprattutto quando è venuto il momento di perdere qualcosa che mi impedisce di abitare dentro me stesso, qualcosa che magari ritenevo essenziale, ma essenziale non era, anzi era un ostacolo alla costruzione della vera casa, la mia, quella che poi posso aprire a tutti, senza paura. Chi non si è mai perso non ha mai trovato casa, chi non è uscito non sa dove sia la sua casa, perché «ri-uscire» nella vita è sempre «tornare» a casa.
Corriere della Sera, 25 maggio 2021 – Link all’articolo e ai precedenti
“Riuscita” nella vita come “ritorno” nella propria casa:
antidoto ai nostri tempi di vuota competitività?
Proprio così…
Bellissimo !
Ora capisco meglio cosa significa “ tornare alla casa del Padre “( cioè la nostra ) : la vita è un uscire necessario per trovare casa nostra ciò che è nostro per sempre che si scopre solo “ tornando “ . Ho sempre letto questa espressione come una formula di pietà o poetica per annunciare il dramma della morte , ora invece comprendo che essa vuol esprimere “ la vita “ che c’è dentro questo ritorno . Grazie !
Caro Alessandro, mi chiamo Lucia e frequento il penultimo anno del liceo classico.
Ho 17 anni, proprio come Federico in “Ciò che inferno non è”, e al pari di lui mi sento fremere di vitalità e speranza. Sono anch’io un’adolescente animata dall’incanto, ma al contempo comincio a scontrarmi con la pesante domanda:”Cosa voglio fare nella vita?”
Mi ha profondamente scosso un post di qualche mese fa in cui lei suggerisce di capire cosa si voglia fare di grande, anziché concentrarsi su cosa fare da grande… ha costituito per me uno spunto di riflessione decisamente rilevante.
Eppure le difficoltà non diminuiscono, poiché, sebbene io creda nel concetto aristotelico di entelechia, come posso nella pratica diventare ciò che sono?
Infatti, dove risiede il mio essere affinché lo conosca autenticamente?
Sono i miei pensieri a identificare ciò che sono? Le mie attitudini? I miei desideri? E quindi, come posso intuire la mia vocazione?
Sento una spiccata predilezione per le materie umanistiche, mi piace stare in contatto con le persone per aiutarle e desidero ardentemente che la mia vita porti frutto. A tal proposito, c’è senza dubbio un’unica Guida in grado di aiutarmi, ma ho bisogno di capire dove indirizzare le capacità e i doni che ho ricevuto al fine di fiorire come persona e come parte di una comunità.
In ultimo, vorrei tanto sapere in che modo abbia compreso la sua vocazione per l’insegnamento.
La ringrazio infinitamente per i forti messaggi di speranza, di amore e di coraggio che riesce magistralmente a trasmettere attraverso i suoi libri, incontri e post, non solo ai suoi fortunatissimi studenti, ma anche a tutti gli altri giovani ragazzi che cercano uno stabile approdo nella bellezza e nella Verità.
Cara Lucia, non puoi avere tutto chiaro prima di fare una scelta, ma a un certo punto è l’uso della libertà, la scelta stessa, ad aprirti le porte della realtà. Noi riceviamo la realtà nella misura in cui la scegliamo e cioè ci apriamo ad essa. Forza!