Ultimo banco 79. A chi somiglia un figlio?
«Tre sono le cose più difficili nella vita di un uomo: stare accanto a una persona con un tumore, stare accanto a una persona depressa, crescere un figlio».
Non dimenticherò mai queste parole di una psichiatra. Mi sono tornate in mente in questi giorni in cui, a scuola, si addensano i colloqui con i genitori. Ho sempre chiesto — e quest’anno, grazie agli strumenti telematici per la Dad, il successo è stato quasi totale — che entrambi i genitori (anche nel caso in cui siano separati) partecipino, se possibile, al colloquio.
Questa richiesta, che avanzo anche quando ci sono situazioni complicate, dà sempre buoni risultati educativi e quindi anche didattici, perché si educa in coppia (ai colloqui vengono quasi sempre solo le madri).
Perché? Perché i figli si mettono al mondo in due e sempre in due si ri-mettono al mondo: non assomigliano ai genitori presi singolarmente ma alla loro relazione, che può essere generativa anche quando è ferita o interrotta, anzi ho spesso incontrato genitori separati che, al momento del colloquio, per il bene del figlio, riuscivano a superare le loro distanze, con risultati sorprendenti, perché, in questi casi, proprio il gesto e lo sforzo di riavvicinarsi per lui, vanno a curare la ferita che la situazione ha o ha avuto nella sua vita.
Non voglio che i colloqui si esauriscano in un elenco di voti accompagnati dalle frasi di rito («ha le capacità ma non si applica», «si deve impegnare di più», «è distratto»…), ma siano un’occasione per mettere a punto, di concerto e in concreto, di che cosa ha più bisogno un ragazzo per crescere nella sua integralità.
Se facessimo i colloqui a inizio anno, quando ancora non ci sono voti, avremmo qualcosa da dirci? Se la risposta è no, qualcosa non va, e abbiamo, ancora una volta, ridotto la scuola a luogo di prestazioni da verificare, a fine periodo, come in un’azienda. Così i ragazzi si sentono «voti» e non «volti».
La soluzione alle difficoltà dei figli quasi sempre non sta in interventi di esperti, ma nel fatto che la relazione tra i coniugi sia generativa, cioè creativa. Come un giorno hanno «fatto l’amore» ed è nato un figlio/a, così, perché il figlio rinasca, è necessario che tornino a «fare l’amore».
Che cosa è questo «fare l’amore»? Se l’atto d’amore «in-nova» (introduce «il nuovo» nella storia umana), solo un nuovo atto d’amore «r-innova» (reintroduce «di nuovo» nella storia).
Come? Trovando tempo (ogni giorno se possibile) per parlare del figlio, unendo gli sguardi per concertare azioni e gesti, che nel caso di coppie separate diventano ancora più rilevanti (nel caso di genitore single ho visto intervenire con grande efficacia figure educative di riferimento come zii, nonni o anche i nuovi compagni/e).
Spesso padre e madre mi parlano del figlio/a come se descrivessero due persone diverse, e proprio questa divergenza di sguardi è salutare, per loro e per il figlio. I due sguardi, apparentemente o realmente discordi, sono entrambi necessari e devono unirsi per ri-generare. Solo così un ragazzo sente su di sé l’energia che proviene dall’essere «di nuovo» sognato dai due, nonostante tutto.
Se non c’è questo spazio-tempo del desiderio, il figlio viene identificato con l’eventuale problema che ha e ciascun genitore, per risolverlo, metterà in atto il modello educativo in cui è cresciuto, che magari non è adeguato alla situazione o controproducente, anche perché spesso in contrasto con quello del coniuge.
Educare è un’arte che richiede soluzioni ogni volta nuove, e i genitori sono «l’artista» che aggiunge ogni giorno una pennellata. Una difficoltà si risolve prima e meglio all’interno della relazione anche perché i figli spesso mostrano i «sintomi» dei traumi/limiti di chi li ha generati, ma proprio loro, i figli, sono la cura di queste ferite.
I «fallimenti» dei figli non sono fallimenti, perché l’educazione, lo ripeto, è un’arte in cui si sbaglia ogni giorno ma, per un artista, l’errore non è una condanna ma un gradino di verità verso il capolavoro. Solo così il senso di colpa si trasforma in senso di responsabilità: come vivo io adulto, nella mia vita, personale e di coppia, questo aspetto critico di mio figlio (non legge, non mangia, non parla, dipende dal cellulare…)?
Gli studenti che mi hanno fatto crescere di più sono stati proprio quelli che sfidavano i miei limiti o ferite: per loro ho sofferto di più e spesso «ho fallito», ma grazie a loro sono migliorato, come maestro e come uomo. Dopo anni con i ragazzi posso dire che i problemi che affrontano hanno risposta non solo dentro di loro, ma vanno affrontati anche dai genitori, in se stessi e nel loro rapporto.
Un’azione relazionale è efficace perché è la vita che parla: le parole senza carne (lezioni teoriche e moralismi) invece non hanno presa.
Quando l’amore si fa carne, cioè tempo-pensiero-azione della coppia, si apre lo spazio creativo in cui il figlio trova l’energia per crescere e noi insegnanti il modo per aiutarlo a riuscirci.
Corriere della Sera, 17 maggio 2021 – Link all’articolo e ai precedenti
Tumore. Depressione. Figlio.
Di queste tre cose, le prime due le ho conosciute quando ancora ero un’adolescente; e all’improvviso mi sono ritrovata a prendermi cura di coloro che si sono incontrati, visti e riconosciuti al fine ultimo di generarmi e di proteggermi.
La terza l’ho scoperta da poco, la considero un dono e ogni giorno continua a stupirmi.
La seconda la vivo tuttora.
Mi reputo una persona fortunata.
Se, come recita C.S. Lewis nel film Viaggio in Inghilterra – “Il dolore di oggi fa parte della felicità di ieri”, io mi sento di dire che è vero anche il contrario. Perché è proprio “grazie” ai dolori più grandi della mia vita che oggi sono in grado di guardare mio figlio e di sentire e vedere attraverso i suoi occhi.
Ho sempre creduto di essere uguale a mio padre, forse perché se ne è andato troppo presto. In realtà, sarebbe riduttivo dire che somiglio solo a lui.
Somiglio allo sguardo tenero e protettivo con cui ogni giorno guardava mia madre.
Somiglio all’amore vivido, riflesso negli occhi di lei, prima che il velo invisibile della depressione li separasse dal mondo.
Somiglio al loro continuo cercarsi, perdersi, ritrovarsi, curarsi e superarsi, in nome di un Amore trascendente: quello per me.
Il mio modo di approcciare alla vita è il frutto di una convergenza unica e irripetibile.
L’idea di Trinità, quell’incognita apparentemente indecifrabile, a volte si manifesta ai miei occhi in tutta la sua innata semplicità : nel momento in cui l’amore tra due esseri converge verso una terza entità, è in grado di superare qualsiasi barriera e di creare un Oltre e un Altrove.
È come un teorema indimostrato. È così perché è così. È il miracolo della vita.
Grazie, Alessandro, per dare l’opportunità di pensare a voce alta in un mondo che non ascolta più.
Manuela
Perchè deve essere il dolore a farci crescere di più?
Chi più ha sofferto, più è profondo, più è maturo, più è uomo.
Ma perchè deve essere così?
Forse perchè è soprattutto attraverso l’esperienza del dolore che si è spinti a dare amore, e l’amore è la sola forza che ci fa crescere.
Ho appena finito di leggere Ciò che inferno non è, dove ho trovato la parola amore declinata in tutte le sue forme. L’amore gratuito e immenso di Don Pino, l’amore di Cristo verso l’uomo, l’amore dell’adolescente che si apre alla vita, l’amore di un genitore verso un figlio, l’amore di un figlio verso il padre…
Si genera in due e si continua ad essere in due a crescere i propri figli.
Quando penso ai miei genitori, che ho perso a breve distanza l’uno dall’altra, mi sento un insieme inscindibile di entrambi e quando penso ai miei figli, vedo in loro l’espressione tangibile di chi li ha messi al mondo che si manifesta a volte in modo più marcato in una direzione a volte in modo più velato nella direzione esattamente opposta.
Loro sono unici, e non sono miei o di mio marito, appartengono a loro stessi: i loro successi non li faccio miei, sono i loro successi, e lo stesso vale per i loro errori, anche se mi faccio mille domande su cosa avrei potuto o potrei fare per evitarglieli.
Forse l’errore principale che fanno i genitori di oggi è proprio quello di vedere i loro figli come prolungamenti di sé stessi e così facendo proiettano su di loro speranze, desideri, aspettative – non riescono a vederli per quello che sono, li soffocano, non permettono loro di avere le loro speranze, i loro desideri, le loro aspettative.
Quello che vorrei per i miei figli è che abbiano entusiasmo per la vita. Quello che chiedo ai loro professori è che cerchino di trasmetterglielo. Hanno bisogno di una guida, da soli non ce la fanno.
Insegno in una scuola media. Con il tempo sono diventata claustrofobica. Le mura della classe e le pagine di un libro mi fanno soffocare. Sento di riuscire ad insegnare di più in estate, durante il campo estivo che organizzo nella mia scuola ormai da qualche anno.
La vita è lì, fuori, non dentro. Ed è la vita che va insegnata. Leggere un libro deve essere una scoperta, non un compito. Si legge un libro per uscire dalle sue pagine e viverlo nella propria quotidianità. Non si spiega la letteratura, non si spiega un autore, non si spiega un periodo storico; si scopre la letteratura, ci si immedesima in un autore, si vive un periodo storico.
Vorrei una scuola così per i miei figli. Sto cercando di creare una scuola così per i miei alunni.
Ogni libro mi dà qualcosa. Ciò che inferno non è mi ha dato tantissimo, inclusa la possibilità di condividere questi pensieri.
Grazie Alessandro.
Crescendo ho sperimentato spesso cosa sia un “fallimento” , nei primi anni della giovinezza , quando l’età dovrebbe essere più bella e consapevole ho sofferto di depressione , ero poco più di una ragazza che si affacciava alle porte della vita , mi sono spesso chiesta cosa sia la malattia , perché deve toccare alle persone la malattia , la sofferenza , ma anche la malattia e la sofferenza mi sono risposta serve per fiorire o rifiorire , sono sempre più convinta che anche la malattia ed il dolore ci renda più ricchi , paradossalmente più vivi , è importante avere una guida nel nostro cammino , qualcuno che ci aiuti a capire qual’è la nostra strada a cosa siamo votati , e questo qualcuno può essere un docente , un sacerdote o un parente , o un amico , basta che sia qualcuno che tenga sinceramente alla nostra formazione come persone e che non ci lasci cadere se inciampiamo su qualche sasso lungo il cammino . Sono convinta che la malattia mi abbia reso una persona migliore , sicuramente più attenta agli altri , ai bisogni del prossimo , non mi sento sola perché so che ci sono molte persone che hanno condiviso la stessa mia esperienza e persone che se anche non l’hanno condivisa sono di un’umanità sensazionale .