Ultimo banco 54. In sicurezza
«Mettere in sicurezza», una delle espressioni più abusate in questi tempi, adatta a impianti e apparecchiature, è ora, ahimè, usata per le persone, con esiti spesso opposti: «mettere insicurezza». Perché più vogliamo sentirci al sicuro e più diventiamo insicuri? «Sicurezza» viene dal latino cura (preoccupazione, pensiero) con un prefisso privativo, «sicuro» è chi è senza preoccupazioni: spensierato. Ma la possibilità di eliminare ogni «cura» purtroppo è un’illusione che può diventare negazione (tras-curare) o ossessione (as-sicurare): invece di aiutarci a vivere ci rende meno capaci di agire nelle tempeste della vita. Non siamo macchine da «assicurare», ma uomini che si possono «rassicurare», perché le esperienze fondamentali della vita sono proprio le «perdite» di sicurezza. Chi si innamora, soffre, desidera… diventa «in-sicuro»: non si sente più padrone di se stesso. Mentre gli animali vivono nell’istante a cui rispondono d’istinto, noi ci proiettiamo continuamente in avanti. Questa capacità di progettare è il «futuro», cioè il controllo che possiamo avere del domani a partire dall’oggi: in base alle mie finanze progetto di comprare casa, in base alle caratteristiche dei miei studenti costruisco un percorso. Ma il futuro non esaurisce tutto «il domani». Come scrive Silvano Petrosino, in Lo scandalo dell’imprevedibile, per indicare il domani diciamo non solo «futuro» (forma latina del verbo essere che si può tradurre: ciò che, date certe premesse, si realizzerà), ma anche «avvenire», dal latino ad-venire, arrivare (da cui advena, lo straniero): ciò che accade senza permesso. Il futuro è – entro certi limiti – prevedibile, l’avvenire imprevedibile. Il futuro si progetta, l’avvenire, invece, semplicemente accade. Una macchina, un esame, un matrimonio abitano nel futuro; un amore, un lutto, un figlio nell’avvenire. Di fronte all’imprevedibile mettersi «in sicurezza» non basta, perché ci impedisce di crescere. Chi riduce l’avvenire, per definizione imprevedibile, a progetto controllabile, tortura se stesso e la vita, cade nella paura e non trova soluzioni nuove.
Scienza e tecnica, con la pretesa di controllare tutto, ci hanno illuso di poter ridurre l’avvenire in futuro: il progresso è il nostro idolo. Ma poi arriva lo straniero, l’imprevedibile: un virus. Scienza e tecnica arrancano. Il futuro crolla e si impone di nuovo l’avvenire, di fronte al quale non possiamo né negare né controllare la realtà, ma dobbiamo aprirci, lottare, dare un senso. L’imprevedibile non chiede la «sicura» ma la «cura», che non vuol dire essere spericolati, ma avere coraggio e inventiva: la preoccupazione diventa occupazione e il pensiero riflessione. Se avessimo fatto così non ci saremmo «preoccupati» per mesi solo di banchi, ma ci saremmo «occupati» delle persone, soprattutto le più fragili (è un principio base della didattica: se la preparo sul più debole della classe una lezione arriverà a tutti). Se ci fossimo occupati delle famiglie e dei ragazzi più bisognosi, avremmo potenziato laboratori, connessioni per la DAD e personale scolastico per il sostegno e per i doppi turni. L’imprevedibile si affronta «prendendosi cura»: affiancando i più deboli, non isolandoli, come tanti anziani o malati di altro genere privati di cure a causa del sovraffollamento degli ospedali. L’insicurezza chiede di avanzare non di fuggire, di tendere una mano non di ritrarla. Mi è di conforto il capitano Bulkington, memorabile personaggio di Moby Dick a cui Melville dedica poche ma monumentali righe: «Questo capitolo lungo sei pollici è la tomba senza lapide di Bulkington. Voglio dire che accadeva a lui come a una nave in tempesta, che passa vicino la costa. Il porto sarebbe disposto a dar riparo, il porto è misericordioso, nel porto c’è sicurezza, comodità, focolare, cena, coperte, amici… Ma in quel vento di burrasca il porto, la terra, sono il pericolo più crudele per la nave. Bisogna ch’essa fugga ogni ospitalità; un urto solo della terra, anche se soltanto sfiorasse la chiglia, scuoterebbe il bastimento da cima a fondo… Con ogni sua forza, esso spiega tutte le vele per scostarsi: il suo unico amico è il suo nemico più accanito. Capisci ora Bulkington?».
Quando la tempesta ci sorprende sotto costa la soluzione non è né ignorarla né rientrare in porto. Bisogna rischiare: il mare aperto è la salvezza. Il domani è la somma di futuro e di avvenire, ma nei momenti in cui è l’avvenire a prendersi tutto il domani, occorre accettarne la sfida per resistere e per inventare il nuovo, perché solo l’imprevedibile ci costringe a svegliarci dal nostro letargo di stanche abitudini prive della vita di cui avremmo invece bisogno. È solo andando incontro a ciò che accade che potremo tradurre l’avvenire in un futuro nuovo, un futuro che non sarà come ce l’aspettavamo, ma molto più ricco e sorprendente, proprio perché ha generato, in noi, l’imprevedibile.
Corriere della Sera, 16 novembre 2020 – Link all’articolo e ai precedenti
Nella nostra società, purtroppo, la sicurezza è uno scopo da perseguire. Da mezzo (utile, perché anche negli ambienti di lavoro la sicurezza è essenziale) è diventato un fine.
È questo il problema. C’è bisogno di polizze assicurative sulla vita, il bisogno di creare un ambiente asettico, di levare tutti gli spigoli e le asperità del percorso di vita.
Se c’è una cosa che ho imparato è che la sicurezza è l’altra faccia del controllo e della pressione sociale esercitata su di noi.
Siamo schedati, controllati, spiati costantemente e c’era bisogno di una giustificazione per tutte queste violazioni: la favola della sicurezza.
Siamo in uno Stato che si proclama democratico, ma sembra ipnagogico, demagogico e, in ultima analisi, totalitario nelle sue smanie di controllo onnilaterale.
L’apparato tecnologico conferma questo.
Sappiamo tutti di essere controllati, schedati, ma prendiamo questa cosa come se fosse “normale”.
Non amiamo essere controllati, eppure ogni giorno ci sottoponiamo a pratiche di controllo come se nulla fosse.
Penso che la sicurezza, quando da mezzo diventa un fine, crei problemi e generi insicurezza. L’eccessiva insicurezza, però, richiede il bisogno di più certezze e più sicurezza, in un circolo vizioso.
Dovremmo davvero cercare di fare spazio a ciò che è imprevedibile. Non possiamo e non dobbiamo avere tutto sotto controllo ed è giusto così.
La sicurezza ritornerebbe ad essere un mezzo e non più lo scopo il fine della nostra società.
Sicurezza rimanda a cura che determina affeto , se ne è priva,vacilla e barcolla.
La cura e aver cura,in un abbraccio che conforta.
L.Mortari la rende pratica di educazione e M.Azumnendi o la trasforma in gratuità.
Ciao, Federica