Ultimo banco 46. A mente accesa
Qualche giorno fa ho ricevuto queste righe amare: «Sono continuamente in autoanalisi del mio probabile “fallimento di madre” ma voglio aggiungere che se un figlio non ha un’intelligenza superiore a cui si aggiunge l’irrequietezza adolescenziale o di indole, viene classificato come “pecora nera” e il favore più grande che può fare alla scuola è ritirarsi. Risultato: l’autostima, nascosta dall’atteggiamento “niente mi tocca”, se ne va, lasciando spazio a “a scuola non vado più”. Spero che qualcuno possa aiutarlo e dirgli “bravo, dai che ce la puoi fare”, una piccola frase che ti fa sentire qualcuno e ti porta ad avere interesse verso qualcosa, a incanalare un talento (tutti lo abbiamo). Vorrei urlare: “Anche mio figlio è meraviglioso, ma non ha più voglia”, perché scoraggiato e forse umiliato. Avrei bisogno di una parola di incoraggiamento». Dal mio osservatorio professionale, posso dire che, influenzati da un’idea di felicità come successo e assenza di cadute, tanti padri e tante madri faticano a capire che «fallire», o più semplicemente fare errori, non solo è normale ma è persino auspicabile. I figli, disattendendo aspettative e desideri dei genitori: da un lato diventano liberi, cioè imparano che le loro scelte hanno conseguenze reali; dall’altro ci rendono liberi, perché solo così possiamo amarli veramente, cioè non per quello che hanno e fanno (per noi), ma perché ci sono.
Niente porta un ragazzo a migliorarsi più di sentirsi amato per come è e niente lo spinge a scoraggiarsi più di sentirsi amato per quello che dovrebbe essere. Non sto parlando di un amore che smette di educare, quello non è amore ma un comodo tradimento, parlo di una chiara presa di posizione: uno sguardo che diventa profetico perché, anche se sente le spine, sa che «oltre» c’è la rosa. I genitori possono scoprire risorse creative sorprendenti se coltivano la speranza innanzitutto in se stessi e poi si concentrano sulle qualità dei figli più che sui loro problemi. Così si spezza il circolo vizioso del senso di fallimento che viene poi proiettato sugli altri, spesso gli insegnanti, ritenuti «colpevoli» dell’insuccesso. Solo se un genitore coltiva uno sguardo pieno di fiducia e di futuro vedrà i punti di forza del figlio, fosse anche solo un aspetto molto piccolo su cui far leva. A quel punto potrà affidarlo agli insegnanti, indicando loro il punto archimedeo di crescita e l’insegnante si sentirà spinto a guardare allo stesso modo, «personale» e non solo «prestazionale». Fare l’insegnante richiede infatti, per professione (è un requisito imprescindibile), prendersi cura della vita integrale, conoscere il punto di accensione dei ragazzi, perché anche il cervello, altrimenti, rimane spento. L’inefficacia e i danni di una visione che fa coincidere l’intelligenza con gli standard del quoziente intellettivo, per fortuna, sta diventando sempre più evidente. L’intelligenza non è una prigione biologica, ma qualcosa che si fa, un’interazione di genoma, Dna, ed epigenoma, la plasticità del cervello attivata dall’ambiente (le relazioni con persone e cose). L’epigenoma agisce sul genoma in modo sistemico sin dal grembo materno e questo rende unico, in ciascuno, il modo di incontrare la realtà. E ci sono tappe in cui questo è essenziale per il futuro: prima infanzia e adolescenza. È inefficace infatti una didattica che riduce l’apprendimento alla somma di istruzione (ciò che da fuori il maestro mette dentro lo studente) e prestazione (ciò che da dentro lo studente tira fuori perché la verifica). Questa è solo una parte, e non la più importante, dell’intelligenza. Ciò che più conta, la biologia integrata di genoma ed epigenoma lo dimostra, è il movimento «da dentro a dentro» (come lo studente riesce a far suo ciò che il maestro ha già fatto suo). Questo passaggio richiede un canale relazionale aperto in cui ciascuno fa la sua parte, come la striscia abrasiva con il fiammifero: il maestro innesca e lo studente si accende. Quando il mio insegnante delle superiori mi diede un libro, dicendomi: «È il mio libro di poesie preferito, fra due settimane lo rivoglio indietro», diventai più intelligente in 14 giorni. Un ragazzo non è intelligente una volta per tutte, ma lo diventa grazie ad attivazioni relazionali e di senso. Altrimenti il suo cervello rimane spento: non è «scemo» o «limitato», semplicemente non è stato «contattato».
Lo racconta benissimo, in «A mente accesa», Daniela Lucangeli che, proprio aiutando sul campo i ragazzi in difficoltà, è diventata un punto di riferimento della comunità scientifica: raramente trovo testa e cuore così uniti e sono le persone da cui imparo di più. Non serve sentirsi falliti e in colpa, perché ci toglie energie da impegnare creativamente. Ogni bambino o ragazzo, anche il più fragile, ha un modo unico di «accendersi». Sta a noi trovarlo e innescarlo, lui farà il resto.
Corriere della Sera, 21 settembre 2020 – Link all’articolo e ai precedenti
Carissimo Profduepuntozero, quanto c’è di me e del mio rapporto con il mio tesoro di quasi 9 anni in questo articolo! Le relazioni sono sempre più votate alla performance, la ricerca, la scoperta e la coltivazione del talento sembra roba da romantici idealisti, spesso additati come alieni lontani dal “mondo reale”. L’affannoso obbiettivo della buona performance non solo ci allontana da noi stessi, ma, peggio ancora, ci rende spesso ciechi ed incapaci di “riconoscere” i nostri figli: ci accontentiamo di essere dei genitori-allenatori (cosa certamente più facile) e rinunciamo al gusto della scoperta e dello stupore di quanto di meraviglioso c’è nei nostri figli (cosa che costa tempo, energie e, spesso, porta tanta frustrazione prima di arrivare al traguardo). Leggerò questo libro, sperando di trovarvi linfa nuova che mi apra gli occhi su mio figlio ogni volta che, cedendo alle lusinghe della stanchezza, sarò tentata dal convincermi che non sia l’anima eccezionale che è!
Non credo sia giusto che i genitori o i docenti, in qualità di rappresentanti delle due agenzie educative più importanti,debbano sempre finire sul ” banco degli imputati “…
Talvolta,può accadere che sia gli uni che gli altri abbiano fatto tutto quanto era nelle loro possibilità per ” accendere” il ragazzo , per ” educere “, per formare, attraverso gli strumenti del sapere, personalità resilienti. I ragazzi, però, non sono entità passive e alla fine scelgono, anche perché il processo di apprendimento non può essere frutto di un atto di mera imposizione dall’alto! Pertanto può accadere( come nel caso di mio figlio) che un ragazzo con potenzialità ,per alcuni versi brillanti, decida di proseguire con il “minimo sindacale” dell’impegno e del profitto e che , dopo tutti gli sforzi profusi e l’ assidua interazione sinergica tra scuola e famiglia, non resti che rispettare la sua scelta cosciente e volontaria in relazione all’ età, a condizione che si assuma la responsabilità e le conseguenze delle sue azioni!
Cara Lucia, sono d’accordo con te. Il nostro compito è metterli in condizione, se poi non vogliono stare al gioco affari loro: per questo parlo di diventare autonomi come scoperta delle conseguenze reali delle loro azioni. Purtroppo tanti ragazzi non vengono messi in condizioni di farlo.
È meglio svolgere un lavoro che non piace che stare a casa a fare i frustrati e rovinare la vita degli altri. Molto meglio.