Ultimo banco 33. La dea Ansia
«Ansia» è stato il nome scelto da una bambina di quinta primaria, quando una collega ha chiesto alla classe di inventare una divinità, dopo aver spiegato loro che gli antichi divinizzavano ciò che ha potere sulla vita: Destino, Invidia, Bellezza… La decenne ha così giustificato la scelta: «Mia madre mi dice sempre che, se non mi impegno, non troverò lavoro». Gli dei contemporanei non sono meno crudeli ed esigenti di quelli antichi. I sempre più diffusi disturbi alimentari e di apprendimento sono in parte ribellioni alla vita come «concorso» basato sulla «prestazione», anziché «percorso» centrato sulla «presenza». Abbiamo rinunciato alla lettura vocazionale della vita, che è pur evidente in ogni elemento del creato, mai statico ma sempre proteso verso un compimento che lo ispira e lo guida come scopo. Dire che qualcuno è in «formazione» è come dire che è in «vocazione»: riceve istante per istante una chiamata che comporta una risposta. Ma al rispetto per la vita delle e nelle cose, che richiede tempo e cura, preferiamo più sicuri standard esteriori che danno l’impressione del compimento, ma mortificano l’originalità. Ci dicono chi essere invece di chiederci chi siamo e di aiutarci a diventarlo, come fa un giardiniere dando a ogni seme ciò che gli serve. Dice l’adagio: «Un seme nascosto nel cuore di una mela è un frutteto invisibile», perché la vita (frutto) e la sua fecondità (frutteto) è nella vita stessa (seme). Educare è mettere l’invisibile in condizioni di rendersi visibile, ma richiede attenzione, pazienza e rischi. In questo periodo siamo «costretti» a guardare bambini e ragazzi da vicino, il che comporta più fatica del solito, ma è un’occasione da non perdere.
Mia madre, in preda alla quarantena, sta mettendo in ordine cassetti dimenticati da Dio e uomini, e ha trovato le pagelle delle elementari dei figli. Uno dei miei fratelli, in terza, era così descritto: «Mostra interesse particolare per la storia. È molto sollecito nella ricerca di documentazione che serve come spunto di conversazione». Quel bambino di 8 anni, a 18 decise di studiare Storia, e ora la insegna all’università. Di un altro fratello si diceva: «Attenzione costante e selettiva, intuizione immediata, osservazione acuta, riflessione critica. Approfondisce le ricerche personali e di gruppo». C’era già il filosofo che è diventato. Nella mia pagella di quarta si leggeva: «I temi sono esaurienti, ben strutturati, corretti e scorrevoli. Legge con espressione, spiegando i vocaboli difficili», e sapete che fine ho fatto. Nel secondo quadrimestre una nuova maestra, a cui mi ribellavo per i metodi coercitivi, aveva scritto con distacco: «Promette abbastanza per il futuro», perché non stavo mai fermo, parlavo sempre e con un compagno avevamo lasciato una finta multa per divieto di sosta sul suo parabrezza, scritta con grafia infantile su una pagina strappata dal quaderno… (ribellarmi era parte della mia vocazione). Ci ha colpito sia la «profezia» di quei giudizi sia lo sguardo attento di maestre capaci di vedere già il frutteto nel seme: erano concentrate sui bambini, scrivevano i giudizi a mano, uno diverso dall’altro, senza barrare caselle precompilate o descrittori standard di competenze. La scuola è sempre nello sguardo dei maestri, rivolto al concreto e irripetibile darsi della vita, e non solo nelle soluzioni tecnico-organizzative. Il fine della vita è la bellezza: un seme di rosa o un bruco di farfalla lo dimostrano. Ciò che è vivo non ha copie, e una pedagogia priva della stella polare della bellezza da compiere, a partire da quella che gradualmente e fragilmente si manifesta, fa violenza all’originalità e spegne la vita, consegnandola alla crudele dea Ansia.
Una buona relazione educativa raggiunge tre fini: cultura, autonomia, vocazione. Siamo forti sul primo, infatti l’attenzione ai programmi sovrasta quella prestata alle vite; fatichiamo sul secondo (i ragazzi diventano capaci di fare da soli o li «addestriamo»?); sul terzo ci si affida al buon cuore dei singoli docenti (e alla paternalistica domanda finale della maturità: che farai?). Dalla scuola infatti escono spesso ragazzi che sanno o sanno fare, ma faticano a prendere iniziative e decisioni autonome, seguendo le aspettative familiari o ciò che fan tutti. Non resiste alle pressioni chi non ha vocazione, le energie sono ingabbiate o disattivate e, prima o poi, entra nella crisi di chi non vive la propria vita. Così, da quando le scuole sono chiuse, ho deciso di pubblicare sui social brevi video sulla vocazione e sono stato travolto da domande a cui dovrebbe rispondere chi segue quei ragazzi. La quarantena è un’occasione per guardare bambini e ragazzi, e cogliere nelle loro fissazioni, passioni, parole, paure, slanci, fragilità… l’origine che li rende originali. Potremmo magari provare a redigere giudizi diversi e unici — come è ogni figlio, ogni ragazzo — per affidarlo alla dea Vocazione.
Corriere della Sera, 27 aprile 2020 – Link all’articolo e ai precedenti
Caro prof,
Ti leggo spesso. Sono una studentessa universitaria, studio Lettere Moderne. Oggi con il professore di pedagogia interculturale abbiamo parlato anche di te e della tua capacità di parlare ai ragazzi, nello specifico concordavamo sulla portata “provocante” del tuo libro su Leopardi. Mi piace questa tua riflessione sull’importanza dei giudizi di contro ai voti. Spero di poter diventare ben presto anche io una tua collega, e mi piacerebbe poter esprimere giudizi che non siano gabbie in cui imprigionare gli studenti, bensì finestre dalle quali ciascuno possa affacciarsi per guardarsi con gli occhi di chi lo ha a cuore, per poi spiccare il volo. Per questo motivo tempo fa, dopo aver visto la miniserie rai su Alberto Manzi, discutevo con mia sorella rispetto alla famosa frase “fa quel che può, quel che non può non fa”: se da un lato in questa frase è racchiusa una vera rivoluzione pedagogica, che mette al centro il bambino con la sua soggettività, e non più uno standard a cui conformarsi più o meno bene, dall’altra mi sembra che una frase del genere possa non essere sufficiente al soggetto in formazione per ri-conoscersi come individuo frutto di attenzioni e dotato di proprie caratteristiche specifiche. È bello leggere i giudizi dei nostri maestri o ascoltare ciò che hanno da dire su di noi, perché a volte ci mostrano una strada che non avevamo visto, a me almeno è capitato così e so di essere stata fortunata! Spero di poter restituire presto questo debito di gratitudine nei confronti dei maestri che ho incontrato sul mio percorso, cercando di farmi “maestra” a mia volta nonostante la situazione presente non mi lasci molto speranzosa.
Grazie per la Bellezza che dissemini a piene mani.
Giulia
Spera Giulia, spera! Perché nonostante le fatiche e le lotte continue, la vita che sboccia è la Bellezza più grande che si possa gustare. La stanchezza svanisce quando la Bellezza dagli occhi arriva al cuore.
Grazie di cuore, Alessandro!
Fiorisce come un frutteto quel seme di giudizio che già espresse la tua maestra alle elementari: “Ottimo il livello di maturazione raggiunto”.
L’Ansia si specchia sul fondo!
Una decina di anni fa, io studentessa universitaria, fui messa di fronte ai più disparati titoli di libri facoltativi per sostenere l’esame di “Pedagogia Clinica”.
Spiccò proprio : “L’Ansia si specchia sul fondo” di Blumenberg .
Io e qualche altro collega fummo entusiasti all’idea di leggere questo libro per comprendere meglio il nostro mondo e quello degli altri, ma la docente fugò ogni dubbio: “Non è un libro che descrive l’ansia come lo intendiamo noi oggi – disse in tono perentorio e chiarificatore – ma parla della cura. Dovete sapere che i tedeschi utilizzano il vocabolo “Sorge” per indicare la premura, la sollecitudine e da noi questo si traduce con ansia”.
In realtà, io scelsi un altro libro, ma questo titolo restò inciso nella mia mente. In quell’attimo capii quanto le parole possedessero un’ambiguità di fondo, una polifonia di significati.
Capii che l’ansia non possiede solo una componente negativa, ma ha anche un’accezione positiva: tutto dipende da cosa tu intendi con quella parola, la tua interpretazione che modifica tutto.
E così, scoprii che “ansia” è negativa quando si crea nel soggetto perenne apprensione e oppressione difficili da gestire, ma l’ansia è positiva quando diventa cura, premura, sollecitudine: la “Sorge”.
E questo è il risvolto positivo: prendersi cura dell’altro e, nello specifico (per un insegnante), degli alunni: diventa l’aver sollecitudine per l’altro, l’aver cura e premura per l’ansia dell’altro o, con un gioco di parole non di certo privo di significato: essere in ansia per l’ansia dell’altro.
Oggi, dell’ansia si intravvede solo l’aspetto negativo che diventa quello preponderante.
In realtà il vero problema è da rintracciarsi nel nucleo emotivo che la società non può (o non vuole) prendersi in carico e gestirlo.
La nostra società è preda de: “L’errore di Cartesio” , come suggerisce il neurologo Antonio Damasio. La nostra società è schizofrenica perché separa l’ambito emotivo da quello intellettivo. Inoltre, cerca di soffocare le emozioni spegnendo la cifra umana dell’uomo.
Per questo l’ansia diventa negativa: in realtà l’ansia ha bisogno di un’altra ansia che la curi, non ha bisogno della sua soppressione.
Se le emozioni si sopprimono, diventano esplosive.
Dal canto suo, la scuola , raramente, prevede un percorso di autoconsapevolezza dell’emotività. Questo compito viene lasciato alla volontà del singolo insegnante o dallo psicologo di turno (sempre che il turno ci sia).
E’ un problema sociale, di cui la scuola è colpevole, ma solo in parte.
Non è solo un problema vocazionale, ma anche emozionale. La nostra società (forse con intenzionalità) sta sopprimendo le emozioni, sradicandole dall’umano.
Non riesco a colpevolizzare del tutto la scuola: ci sono altre forze occulte che sembrano remare contro.
Giustamente, un insegnante si può e si deve preoccupare della vocazione (e non solo della convocazione) di un alunno, ma nell’aleatoria della vita e delle esperienze, possono succedere tante cose.
Me lo dimostrano, più di tutti gli altri discenti, gli alunni del serale: persone di varie età: sessanta, quaranta, anche diciassette anni .
Tutti hanno abbandonato lo studio per tante problematiche di vita, sono inciampati e caduti ( qualcuno ci è andato giù anche pesante), ma si sono ripresi o stanno cercando di riprendersi. Chi ha abbandonato il diurno perché emarginato e bullizzato, chi a causa di scarse risorse economiche, chi a causa di problematiche familiari o sociali, chi perché non ha riconosciuto, da ragazzo, l’importanza dello studio.
Ma sono ritornati, testimoni di una vocazione sofferta, intermittente ma presente.
Testimoni di un programma che non è in contrasto con la vita, ma è vita.
Sono entusiasti a tal punto che mi hanno chiesto di fare una video lezione anche domani, 1°maggio.
Tanta sofferenza, cadute e determinazione mi commuovono e non sono stata capace di dire: “Ehm… non si può…domani è festa”.
Loro mi insegnano tanto, mi hanno insegnato che cadere può essere facile, ma ci vuole arte per rialzarsi, che la persona forte e coraggiosa è quella che trova coraggio per farlo, come loro.
La vocazione, guardando al loro esempio, non è una retta lineare, ma un percorso frattalico, fatto di ammaccature, sbucciature e impedimenti di vario genere, ma essere forti… essere sempre!
Tutto vero provato nella mia anima. Abbandonate le Magistrali per studiare infermieristica poi non essendo riconosciuta adatta… In seguito per rimettermi in sesto grande fatica. Studio e lavoro sempre assieme e costante. Però ora sono soddisfatta di non essermi mai fermata nonostante le fatiche familiari da far conciliare. Da più di 20 collaboratrice nelle scuole mi da grandi gratificazioni ma anche talvolta sofferenze perché… Ma va bene così ci sono i bambini e ragazzi che quando mi vedono mi riconoscono a distanza di anni e riscontro buoni feedback
Ma, davvero hai fatto la multa alla maestra?? Per insegnare bisogna essere in grado di ascoltare ed entrare in sintonia con gli alunni ma, non sempre è facile. Entrambi i miei genitori sono stati insegnanti. Mia mamma alla materna, mio padre alle medie, come docente di lettere. Le loro scuole erano una alle spalle dell’altra, in un quartiere molto difficile della mia città (malgrado ciò non hanno mai voluto cambiare perché dicevano che li dove c’era tanta miseria, c’era anche tanta bontà). Capitava spesso che ex alunni di mia madre arrivassero da mio padre trasformati e mezzi criminali. Entrambi i miei genitori soffrivano molto per ciò, non capacitandosene e facendo diventare la ricostruzione di quelle giovani vite oggetto di confronto a tavola (già allora capivo l’enorme fortuna per dove fossi nata). Mio padre provava in mille modi a strapparli alla strada, cercando di coinvolgerli e diaiutarli ad ascoltare le loro inclinazioni. Pur cadendo in un forte sconforto quando non ci riusciva, non ha mai mollato, andando persino in pensione part-time. Anche io, a volte, cado in fortissimi sconforti dinnanzi a dolori sussurrati ed innominati, quando colloqui iniziati per un apparente, banale, improvviso, calo del rendimento scolastico rivelano un abuso sessuale di quel minore da parte di un parente che, in un momento di grave malattia del genitore avrebbe, invece, dovuto prendersene cura o quando colloqui iniziati per tossicodipendenza rivelano, poi, che quel tossicodipendente è anche un pedofilo. Entrare nei dolori è l’unico modo per sciogliersi e chi dedica la propria vita alla cura dell’altro deve sapere ascoltare e sempre guardare oltre le parole.
Che bella famiglia!! La condivisione a fine giornata, tavola, della propria passione è meravigliosa! Una vocazione ereditata mi sembra di capire.
Grazie, per metà innata e per metà ereditata. Anche se non sono mancate le volte in cui è stata messa a dura, durissima prova.
La dea Ansia ha il potere sulle cose.
La dea Vocazione è il motore del seme, del bruco e di ogni vita.
Educare è rendere visibile ciò che è invisibile.
Come avviene il passaggio dall’invisibile alla visibilità? O meglio come può avvenire il contrario?
Mi lascia sembra basita, triste ed amareggiata la capacità di rendere invisibile ciò che è visibile già a 3 anni. Come si offusca la preziosita spiritualità di una vita?
Sono una maestra della scuola dell’infanzia. Se ho la fortuna di assistere allo schiudersi di una crisalide, e ho le prove che è possibile, perché quella farfalla potrebbe non riuscir mai a volare?
Una buona scuola (vera) è quella che crea le condizioni adatte affinché la vocazione possa farsi voce a cui rispondere.
La preparazione dell’ambiente di apprendimento a cui Maria Montessori dà grandissima importanza, riguarda proprio l’arare un terreno fertile per permettere al seme di germogliare.
La Montessori (medico prima ed educatrice poi) crede che attraverso un’osservazione attenta del bambino possiamo comprendere le sue voci interiori (i periodi sensitivi). Ora predisponendo un ambiente in cui ogni bimbo sia in grado di prendere con le mani e con la mente la risposta a questa voce interiore. Facendo un passo indietro, lasciandolo fare, e… aspettando…. assisteremo alla meraviglia della vita. Una rosa, una farfalla, una pioggia estiva, un sorriso compiaciuto del bambino che ancora incredulo è riuscito a raggiungere il suo scopo. Un bravo maestro è colui che sa ascoltare le chiamate, che predispone per ambiente fertile, che indietreggia mettendosi da parte e che conferma e rafforza la vocazione facendola manifesta alla coscienza. La normalizzazione di cui parla Montessori è proprio questa conoscenza e riconoscimento di sé come embrionale spirituale unico e irripetibile facente parte di una società per coesione il cui fine ultimo è la pace comune tra gli uomini e tra gli uomini ed ogni essere vivente.
(Periodi sensitivi, fame interiore, voce, conoscenza del seme e delle cure necessarie
Ambiente di app, cibo spirituale, risposte, terreno fecondo, cure
Normalizzazione, pace, la vocazione, la rosa, la farfalla)