Ultimo banco 19. Una bambinata universale
«Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per farmi venire voglia di seguitarla». Con questo biglietto al direttore del «Giornale per i bambini» il 54enne Carlo Lorenzini accompagnava le prime pagine del libro italiano più famoso al mondo. I primi due capitoli, firmati con lo pseudonimo Carlo Collodi, uscirono il 7 luglio del 1881. Ma già a fine ottobre l’autore, deluso nei suoi ideali politici e stanco della sua situazione personale, scriveva la parola «fine»: Pinocchio penzola da una quercia, impiccato dal Gatto e la Volpe, come narra il capitolo 15. Un finale inatteso che provocò l’insurrezione del pubblico, così che nel febbraio del 1882 Collodi fu costretto a tirar giù dalla quercia il burattino, per arrivare, a giugno, al finale aperto del capitolo 29: la fata promette a Pinocchio che lo trasformerà in un bambino. Il pubblico insorse di nuovo: Collodi doveva scavare ancora. Riprese a raccontare e, all’inizio del 1883 (proprio nel gennaio di 137 anni fa), regalò ai suoi lettori il capitolo 36 di un libro che conquisterà il mondo intero (è il secondo più tradotto della storia dopo Il piccolo principe), una storia tornata di recente in tv con le lezioni di Franco Nembrini e ora al cinema con l’adattamento diretto da Matteo Garrone.
Collodi, bisognoso di soldi per i suoi debiti di gioco (Pinocchio era lui), fu costretto a scandagliare il suo mondo interiore dai lettori più attenti alla verità: i bambini (cioè tutti, perché tutti lo siamo stati). Se un’opera d’arte supera le intenzioni e le forze di chi crea e diventa popolare, è perché ha colto l’universale. Pinocchio non invecchia e rinasce perché racconta ciò che non deve andare perso: il segreto dell’esistenza. C’era una volta… comincia anche questa favola: il termine, dal latino «fabula», è composto da fa-, il «dire divino» che fa essere le cose (da cui fato), e -bul, suffisso che indica il luogo dove l’azione verbale accade (in latino stabula è dove stanno gli animali, le stalle). E così fabula è il luogo in cui qualcuno incontra il suo destino, il senso del suo stare al mondo: per questo delle storie non potremo mai fare a meno. Questa favola però non si intitola semplicemente «Pinocchio», ma «Le avventure di Pinocchio». L’uomo incontra il suo destino nell’avventura, altra parola meravigliosa, uscita dai romanzi medievali. Avventura era il fine della ricerca del cavaliere: dal latino adventus (arrivo del Messia) o eventus (fatto straordinario), indicava l’incontro con l’ignoto, positivo o negativo, con effetti esistenziali definitivi. L’avventura, sostanza della fabula, è quindi il modo unico che ha ciascuno di incontrare il destino, tanto che — sebbene tempi poco cavallereschi riducano spesso «avventura» a piacere effimero — resiste nell’aggettivo «avventuroso» il significato di «rischioso». Le avventure di Pinocchio sono le peripezie che portano una natura morta (un pezzo di legno) alla vita (un bambino) passando per la prova (il burattino). L’avventura è l’uscita verso l’ignoto di ogni esistenza: ne fa accadere la verità come un nuovo venire alla luce. Tutti gli uomini sono avventurieri della vita, cioè sono chiamati a rischiare per cercare il senso della loro vita. E qual è? Nel libro di Collodi è la tortuosa ricerca dell’amore della creatura per il creatore. All’inizio un pezzo di legno sceglie Geppetto per fuggire a mastro Ciliegia, che vuole farne la gamba di un tavolo; poi l’allontanamento dal «babbo» porta il burattino alla morte (l’impiccagione del primo finale); infine il ritorno alla vita con il ritrovamento del padre e la lotta per salvarlo, prima dal ventre della balena e poi dalla malattia, lavorando giorno e notte per comprare il cibo necessario a farlo guarire. Nel finale, Pinocchio, appena sveglio per una nuova giornata di lavoro, «andò a guardarsi allo specchio e gli parve d’essere un altro». Non è un burattino «trasformato» in bambino, come nella edulcorata versione Disney, ma è «un altro». Il burattino giace in un angolo e, non appena Pinocchio lo vede, esclama: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino». Non è trasformazione, ma nascita: è morto l’io-schiavo (burattino) ed è nato l’io-libero (figlio). Si è compiuto il destino: l’avventura di ogni vita è diventare vivi per amore, attraversando la morte dell’io chiuso in sé e ancora incapace di amare, come hanno intuito, da e con prospettive diverse, Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo) e Biffi (Contro Mastro Ciliegia) nei più bei libri-commento su Pinocchio.
Vent’anni fa, nel mio primo anno di insegnamento, lessi il libro per intero a una prima media. Rapì loro e me, perché la verità seduce a qualsiasi età e latitudine: per incontrare se stessi bisogna avventurarsi nella vita, rischiarla per trovarne l’origine e la meta, cioè l’amore da cui siamo fatti e per cui siamo fatti. Solo così saremo sempre vivi e rideremo di quand’eravamo solo pezzi di legno.
Corriere della Sera, 13 gennaio 2020 – Link all’articolo e ai precedenti
Articolo molto bello e veritiero, perché ogni persona, per capire e scopri le proprie origini, secondo me deve viaggiare, ma viaggiare in due modi:
Uno è viaggiare per il mondo, invece l’altro è viaggiare dentro di se se
Pinocchio mi accompagna sin dalla mia infanzia: il libro, il cartone animato, il parco nei pressi di Pistoia, i due film… Ma anche all’università, pure se per un breve tragitto, con l’esame di Letteratura per l’infanzia…
E’ stata una meravigliosa sorpresa il film di Garrone, così come questo suo ultimo articolo.
“Avventura” e “avversità” , se non erro, hanno la stessa radice . Non c’è avventura senza avversità, senza rischio, senza fallimento, senza lotta…
Mi hanno fatto sempre impressione gli avvenimenti del “paese dei balocchi” dove i ragazzi che hanno voglia solo di divertirsi, senza faticare o studiare, diventano asini .
Probabilmente qui si ritrova l’intento pedagogico di Collodi, il suo monito di non lasciarci abbagliare dalle “sirene” e accettare la difficoltà e la fatica come parte integrante della nostra vita.
E’ veramente una favola ricca di spunti pedagogici, una favola universale proprio perché tutti noi siamo Pinocchio: con il nostro cammino evolutivo fatto di sofferenze così come di gioie, di disobbedienze come anche di obbedienze nei confronti dell’autorità paterna, di fallimenti, di tentativi ed errori, di ostacoli .
Pinocchio non obbedisce al padre, almeno inizialmente, anzi dà fiducia al gatto e alla volpe, a Lucignolo… A persone che in realtà curano il proprio interesse , danneggiandolo. Proprio da queste esperienze tragiche prende avvio la metanoia, cioè il cambiamento di mentalità. Ciò che salverà Pinocchio, in realtà, non è tanto la Fata Turchina , ma proprio questo diverso “punto di vista” sulle cose, sul mondo, su ciò che lui è e su ciò che potrebbe diventare, senza scorciatoie o autoinganni.
Sicuramente l’aiuto della Fata, del Grillo Parlante e, principalmente, del babbo è importante, ma la vera nascita di Pinocchio è dovuta al suo cambio di mentalità, di prospettiva, la vera nascita parte dal cuore e dalla mente … Dalla mente del cuore e dal cuore della mente. Una nascita, ma anche trasformazione, non fisica, ma spirituale… Perché , come pare rammentarci Goethe: Bildung ist Umbildung… La formazione è trasformazione… Formazione nella trasformazione e trasformazione nella trasformazione umana. E perché no? Trasfigurazione.
Dobbiamo riconoscenza ai traduttori, invisibili filtri, preziosi funamboli della parola, è grazie a loro che possiamo godere di pagine indimenticabili di autori stranieri.
Le avventure di Pinocchio, Il piccolo Principe come Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie fino ad Harry Potter sono scritture filosofico-pedagogiche, considerate facenti parte della letteratura per giovani ma che attraggono anche i meno giovani. In queste narrazioni i personaggi si trovano a vivere circostanze particolari e nelle metafore, nelle allegorie adoperate da chi le ha scritte si possono rintracciare le risposte ai dilemmi e ai tanti perché che l’uomo si pone da quando, fin da molto piccolo, inizia a relazionarsi con chi gli è vicino e a scoprire il mondo che lo circonda. Risulta evidente da molti studi l’importanza di come si vive l’esser bambino nel “panorama” di cui si dispone e come quel bambino rimanga sempre nascosto come un seme in ogni persona.
Un seme che se viene da un giardino rigoglioso o dal deserto più arido quando trova le condizioni, naturali o indotte, per germinare darà: fiori,frutti e semi a sua volta, nella naturale circolarità del tempo della vita.
I suoi articoli ci incantano con la forza delle storie che ci racconta che sembrano un po’ fiabe un po’ favole, i protagonisti sono però veri uomini o donne collocati in un tempo e in un luogo, hanno sempre molto da insegnarci con messaggi semplici ed efficacissimi, nel lasciar spazio a ciascuno, per cercare “l’essenziale” che ogni giorno della vita ci da l’opportunità di gustare.
Grazie per il suo spirito vivace.
Grazie di questa ricchezza di dettagli che vuole condividere dando l’opportunità a ciascuno di guardare da una prospettiva nuova ogni artista facendocelo sentire più vicino con la sua umana fragilità che però è riuscito a trasformare in qualcosa di rigenerativo non solo per se stesso.
Grazie professore.