Ultimo banco 8. Il cielo in una stanza
«Telemaco si recò nella stanza per andare a dormire, con molti pensieri nel cuore». Quando, lunedì scorso, ho sollevato lo sguardo dopo aver calcato la voce su queste parole del primo capitolo dell’Odissea, gli occhi dei miei ragazzi erano pieni di stupore, come dicessero: sta parlando di me? Ogni anno porto la mia prima superiore a Itaca: basta che ogni studente abbia l’Odissea sul banco (quest’anno ho scelto la bella versione di M.G.Ciani). Tutte le settimane leggiamo un canto ad alta voce (ogni alunno interpreta un personaggio), dopo aver disposto i banchi come la sala del palazzo omerico in cui, dopo il banchetto, i commensali ascoltavano i racconti. Purtroppo a scuola ci capita di far odiare i grandi libri ai ragazzi: li sostituiamo con le spiegazioni e li facciamo — è macabro — a «brani». Così diventano secondari rispetto a «ciò che c’è da sapere per l’interrogazione»: l’originale se non inutile diventa futile. Io sono convinto del contrario: i classici hanno detto il mondo in modo irripetibile, bisogna quindi lasciarli accadere perché, come nella vita, si desidera conoscere meglio solo ciò di cui ci s’innamora, anche se richiede impegno. Dopo anni di letture integrali posso dire che i ragazzi fanno esperienza (diventano cioè esperti) del testo vivendolo e non vivisezionandolo. Leggere per intero l’Odissea sembra folle, ma è più semplice di quanto sembri. Come?
Il primo libro dell’Odissea è una vertigine, il cielo si tuffa nella stanza e nel cuore di un ragazzo: «E là per tutta la notte, avvolto in morbida lana, Telemaco pensava in cuor suo al viaggio che gli aveva suggerito la dea Atena». Telemaco perde il sonno, finalmente la sua vita ha «senso»: direzione e significato. Se vuole maturare deve lasciare le comodità e gli alibi infantili: lo farà trasformando in destinazione proprio quello che sembra un destino paralizzante. Se oggi molti ragazzi rinunciano a muoversi è perché non c’è niente per cui mettersi in viaggio e lottare da lontano. La loro stanza spesso resta un parco di illusioni più che un porto da cui salpare nei mari del futuro. Telematici più che telemachici, privati del desiderio di rischiare e crescere, rischiano di restare piccoli e impauriti. Leggere l’Odissea per intero può essere un piccolo antidoto, ma solo se noi adulti, per primi, ritroveremo il coraggio di riportare il cielo in una stanza, in un’aula, in una testa, in un cuore.
Corriere della Sera, 28 ottobre 2019 – Link all’articolo e ai precedenti
Salve,sono Federica Salvan, insegnate di Scienze umane, Filosofia che ha da poco ricevuto la pronta risposta alla apposita scheda per ospitare Alessandro D’ Avenia,non possibile per i tanti impegni.
Con discrezione, tentero’ ancora in una attesa speranzosa.
Scrivo da tempo emails al Professore e mi ha risposto più volte e ringrazio.
Leggo assiduamente la rubrica sul Corriere della Sera, da cui traggo spunto, come dai suoi libri
Ora conosco meglio il suo sito e proporro’ i miei commenti, oltre le emails.
Telemaco
Egli è nel valore e coraggio, cui esorto studenti, studentesse delle classi prime, mie classi all’Alberghiero.
Egli è modello del giovane che cerca, dimanda bel cammino, sbagliando, poi ricominciando ain
un saliscendi, oscillazione, da adolescor, ma forse, tutta la vita lo è,se “adolescor” vuole dire crescere e non si sa mai, se giunga alla cosiddetta adultita’, compimento di sé.
Egli è insieme a Odisseo,che con le sue peripezie, è politropos, ingegnoso, industrioso e con Penelope, meticolosa tessitrice delle cure domestiche
In questi,figura Itaca, approdò del desiderio di scoprire sé, elemento basilare bella avventura del ragazzo/a; sempre, l’ insegnate, educatore,/truce deve spronare, generare, non degenerare cime Aiace,Joker per la scintilla che alberga in ciascuno.
Quindi, diventiamo veri Tele- machi, non tele-matici; non rigettiamo la telematica, ma distinguiamo tra realtà nella Bellezza di persona e virtuale, digitale che, se non misurato,confonde, destabilizza.
Grazie, Federica, in continuità di dialogo, relazione educativa
Questa volta la prima emozione che ho provato nel leggere “Il cielo in una stanza” è vincente sulle altre considerazioni che l’articolo permetterebbe di fare.
Era il 1996 quando in famiglia abbiamo dovuto accettare la diagnosi di malattia di Alzheimer per mio padre che mostrava già da tempo sintomi di deterioramento del sistema nervoso. La perdita di memoria che all’inizio lo ostacolava ogni tanto, via via gli ha tolto la possibilità di pensare, di relazionarsi, di leggere, di scrivere ma anche di fare le più semplici cose. Questa malattia fa regredire la persona fino a togliergli ogni conoscenza acquisita vivendo. Mio padre non sapeva più cosa fosse e a cosa servisse una forchetta ad esempio, quando lo facevamo sedere a tavola la prendeva, la osservava , la girava tra le mani, a volte la lanciava lontano. La perdita delle competenze era in certi periodi rapidissima in altri più lenta. Quando ancora riusciva a camminare in casa, la mattina andava ripetendo lungo il corridoio i versi dell’Odissea, che aveva sempre amato. Io e mamma ci guardavamo perché ci sembrava impossibile. Un giorno gli ho chiesto: “papà cosa stai dicendo?” e lui: “Odissea, signora!”( non mi riconosceva più da tempo). Tante volte ci aveva raccontato che ai suoi tempi l’Odissea la si leggeva interamente a scuola e se ne studiavano a memoria molti passi. Rimaneva stupito che fosse stata tolta dai programmi scolastici un’opera così formativa. Diceva che durante i sei anni di guerra , che aveva fatto senza tornare mai a casa, nei momenti di paura lui ripeteva tra se questi versi che gli facevano compagnia e coraggio. Quello che ci stupiva di più era che lui non ricordava più nulla se non il nome di battesimo di mia madre, che chiamava continuamente e i versi dell’Odissea. So che il cuore possiede neuroni come il cervello allora mi piace pensare che, sia il nome della moglie sia i versi di Omero, il mio papà li avesse imparati col cuore ,che agisce in maniera indipendente rispetto al cervello, e così li aveva potuti salvare. Questo avveniva prima che arrivasse a perdere il controllo di qualunque funzione che lo costrinse a passare l’intera giornata a letto con un corpo sano e un cervello completamente vuoto. I suoi occhi erano cambiati, negli ultimi giorni roteavano. Non si riusciva a reggerne la vista. Questa malattia stravolge la vita di chi ne è affetto e mette alla prova quella di chi gli vuole bene e lo assiste per anni. Da quando il mio papà non c’è più ogni volta che sento “Odissea” ecco lui con quei versi di Omero che dal cielo entra nella stanza in cui mi trovo insieme a mia madre che lo ha tenuto per mano fino alla fine. Vedere la sofferenza da vicino non è mai cosa facile eppure è un modo per crescere, per esercitare la pazienza e per diventare capaci ad adattarsi agli imprevisti. Oggi non si vuole più vedere chi soffre, malati e anziani si portano lontano da casa a vivere le loro tribolazioni. Eppure farebbe bene ,specialmente ai giovani ,passare qualche ora vicino a chi soffre per donare un sorriso, una parola o solo una presenza, credo permetterebbe di avere la sera un cuore più disposto a vedere o cercare un cielo luminoso.
Un grande grazie.
M.R.D.M.
Quale edizione mi consiglia per una prima media?
Gentilissma Marta, le consiglio “L’Odissea raccontata ai bambini” di Navarro-Duran, Mondadori.
Per associazione di idee penso a Margherita, la protagonista di “Cose che nessuno sa”.
Margherita decide, come Telemaco, di partire per ritrovare suo padre.
È il suo professore di italiano e latino che, tramite la lettura in classe dell’Odissea e assegnando un ruolo agli alunni, fa nascere in lei l’idea del viaggio.
Partire e ripartire sono le coordinate della nostra esistenza.
La filosofia della formazione umana non può prescindere da queste tematiche.
Viaggiare è formazione, così come partire e ri-partire.
Lavoro con persone che sanno cosa vuol dire ripartire dopo uno sbaglio, dopo una sofferenza, dopo una tossicodipendenza. Per loro ripartire è questione essenziale. Alcuni non rimpiangono nemmeno il passato, dicono che gli errori sono serviti loro… Per ripartire
Quante volte ho pensato, da studente, che la “scolarizzazione” letteralmente uccida la letteratura. E ancora lo penso in effetti… Ho sempre accolto con insofferenza le letture antologiche mal interpretate dai docenti, forse persuasi (a torto) del carattere accessorio della forma, del suono della parola. Ho sempre subito le letture estive obbligate (per altro le uniche integralmente proposte, non a caso, fuori dall’orario curricolare) e ho cercato di “ribellarmi” a mio modo, anche se non è servito a molto (cioè leggendo solo ciò “che mi andava”). Purtroppo ho conservato un atteggiamento problematico nei confronti della lettura, che nemmeno una laurea in Lettere Classiche, ha risolto del tutto. La qualità delle letture, il tempo impiegato a leggere un libro, il canone… In breve il dovere che prevale sul piacere. Tutti elementi che, in un modo o nell’altro, tornano a farmi visita come un brutto ricordo che si vuole scacciare in fretta. Credo che da un lato a scuola, dall’altro nelle Università esista una preoccupazione isterica per la quantità, quasi la cultura si potesse rilevare con uno strumento da laboratorio. La quantità, certo, è verificabile.
Ma poi leggo i suoi libri, le sue rubriche e mi sento compreso. Tante idee che avevo da tempo condivise nero su bianco, con quella perspicuità filosofica e, al tempo stesso, poetica tutta leopardiana, con quella capacità di tornare all’origine delle cose, al loro senso originario privo di sovrastrutture attraverso l’indagine etimologica. Tutto questo accompagnato dall’apparente immediatezza, semplicità, assenza di sforzo proprie di chi davvero sa.
A breve concluderò la mia Magistrale e sono proiettato verso l’insegnamento.
Inutile dire che Lei è di grande ispirazione per me.
Lo desidero dall’infanzia e spero di imparare cosa significa, come dice Lei, portare a compimento, permettere a ciascuno di trasformare il proprio destino in destinazione, appassionare, essere fedeli al proprio rapimento, al proprio principio originario e tendere a quell’infinito di cui sentiamo la nostalgia.
Grazie!
Grazie, Stefano, per le tue parole così pesate e ben scelte: rarità. Ti aspetto nella scuola del futuro, sperando che non spenga il tuo ardore l’inutile corsa a ostacoli che un sistema iperburocratico e perso in mille inezie è riuscito a inventare…