Letti da rifare 58. L’orizzonte degli eventi
Più di 6 miliardi di Soli concentrati in uno spazio pari al nostro sistema solare. Si aggira attorno a quest’ordine di grandezza la massa di M87, il buco nero che qualche settimana fa si è lasciato immortalare a 55 milioni di anni luce di distanza in una foto che ha ipnotizzato tutti. Un gigantesco occhio dalla pupilla più nera di qualsiasi nero possiate immaginare, perché l’immensa forza di gravità di questo corpo celeste inghiotte anche la luce, una pupilla contornata da un’iride fiammeggiante composta dalla materia e dall’energia che, prima di essere divorate, lanciano un ultimo grido di luce segnalando l’orlo dell’abisso. Gli scienziati lo chiamano «orizzonte degli eventi», una zona dello spazio-tempo in cui è impossibile osservare ciò che accade. Questo occhio ciclopico, oscuro, vorace, rutilante, ci attrae e seduce, perché non siamo noi a guardarlo, ma lui a guardare noi. Perché? Che cosa riconosciamo nella vertigine da cui ci fissa? È una di quelle manifestazioni del sacro che gli storici delle religioni chiamano «ierofanie»: l’abisso fuori di noi, facendoci da specchio, risveglia l’abisso che sta dentro di noi.
Al centro del nostro essere c’è infatti il buio pesto dell’origine e della fine, quello spazio indefinito che precede la nostra nascita e succede alla nostra morte. Questo abisso indubbiamente ci spaventa ma al contempo ci affascina: il fondamento della nostra esistenza è un mistero sul quale costruiamo le impalcature della cultura, per illuminarne un poco l’oscurità, che scambiamo con il nulla, semplicemente perché spesso è insufficiente la luce che usiamo. Come un ragno sospeso sull’abisso, l’uomo prova a tessere la sua meravigliosa, geometrica, ma anche fragile tela e, a volte, se ne innamora così tanto da convincersi che quei fili che ha costruito siano la vita tutta, ma lì, sotto quei filamenti, l’abisso continua a sfidare l’esistenza, come scrive Ungaretti in Pietà: «L’uomo, monotono universo,/crede allargarsi i beni/e dalle sue mani febbrili/non escono senza fine che limiti./Attaccato sul vuoto/al suo filo di ragno,/non teme e non seduce/se non il proprio grido./Ripara il logorio alzando tombe,/e per pensarti, Eterno,/non ha che le bestemmie”.
Einstein, grazie alle equazioni della sua relatività generale, aveva ipotizzato l’esistenza dei buchi neri, ma non avrebbe mai sperato di vederne uno in «carne e ossa». Eppure, prima di lui, di quel buco aveva fantasticato Anselmo Paleari, stravagante intellettuale, amico di Adriano Meis, altresì noto come Mattia Pascal. Tutto merito di Pirandello che nel 1904 aveva tirato fuori dalla sua immaginazione quei personaggi bislacchi. Paleari spiega al suo ospite Adriano-Mattia che la differenza tra il mondo antico e quello moderno è un buco nel cielo. Gli fa l’esempio di una rappresentazione dell’Elettra di Sofocle in un teatro di marionette: al centro della scena c’è Oreste, determinato a uccidere la madre, Clitemnestra, per vendicare il padre, Agamennone. Il cielo compatto alle spalle di Oreste, il firmamento (ciò che dà fermezza), garantisce determinazione alla sua azione: sono gli dei a voler giustizia, e l’uomo è solo un filo della trama inesorabile del destino. Ma se a un tratto in quel cielo di carta si producesse un misterioso strappo allora Oreste comincerebbe a fissarlo e da lì entrerebbero in lui tutti i dubbi su ciò che deve fare, non avrebbe più «firmamento», diventerebbe «in-fermo» (da in-firmus: non fondato, non stabile) e si trasformerebbe nell’uomo moderno, Amleto, colui che tituba nell’agire e si dibatte tra essere e non essere. Il buco nel cielo di carta è il buio pesto che avvolge l’esistenza e che l’uomo cerca di illuminare con quella piccola luce che è il suo «sentire» la vita, la sua vertiginosa consapevolezza di essere vivo: «Nietzsche diceva che i Greci alzavano bianche statue contro il nero abisso, per nasconderlo. Sono finiti quei tempi, io le scrollo, invece, per rivelarlo», così diceva Pirandello della sua ricerca poetica.
Anche i due più bei film di fantascienza della storia del cinema ruotano attorno a un buco nero. Nell’ultima parte di 2001 Odissea nello spazio, intitolata Giove e oltre l’infinito, David, l’astronauta sopravvissuto al temibile computer di bordo Hal 9000, inseguendo il misterioso monolite, viene inghiottito da una forza inspiegabile e cade in un abisso multicolore. Alle immagini vertiginose si alterna la ripresa ingigantita del suo occhio, specchio del buco nero in cui sta precipitando, finché non si ritrova in una casa sospesa nel tempo e nello spazio, dove incontra il se stesso del futuro che invecchia fino al faccia a faccia con il monolite, per poi trasformarsi in bambino in un grembo cosmico, che dallo spazio osserva la Terra verso cui torna, rinato, sulle note dello Zarathustra di Strauss che aveva aperto il film. Nelle immagini di Kubrick l’odissea ai confini dello spazio-tempo, che si curva su se stesso, diventa un eterno ritorno a casa, l’incontro con l’essenza di noi stessi. Va oltre Interstellar di Nolan in cui il protagonista entra in un buco nero per raggiungere rapidamente altri mondi, ma si ritrova anche lui a casa e di fronte alla sua stessa vita. La costruzione visiva di Gargantua, il nome del buco nero preso in prestito dal vorace personaggio letterario, è uno dei miracoli dell’arte cinematografica recente. Il protagonista, anche qui, si ritrova in un’intercapedine spazio-temporale in cui passato presente e futuro sono relativi. Insomma il buco nero diventa in entrambe le narrazioni il corridoio verso la possibile liberazione dal tempo e dallo spazio: il sogno di immortalità dell’uomo in carne e ossa. Per Pirandello il buco nel cielo entrava nell’uomo, per Kubrick e Nolan è l’uomo che vi entra, per scelta. L’uomo dopo-moderno, un pirandelliano personaggio in cerca d’autore, si tuffa nel cielo bucato e spera di trovarsi faccia a faccia con la Risposta e, in entrambi i film, si ritrova semplicemente faccia a faccia con se stesso e la sua vita. La Risposta non è data, ma rimandata, e quindi avvolta in una maggiore angoscia: dopo tanto viaggiare fuori di sé l’uomo si ritrova sempre chiuso in se stesso, in un cerchio infrangibile.
Passiamo la vita a cercare di rompere questo cerchio chiuso dell’esistenza, a liberare noi stessi dalla scatola del mondo e dei giorni, in esperienze che proiettino il nostro io fuori dalle faticose e inesorabili leggi naturali. Ci proviamo a contatto con la natura nelle sue forme più selvagge e sublimi: il deserto, le vette, le foreste, il mare; ci proviamo con i viaggi dell’immaginazione nelle vite di altri, contenute in libri, film, serie; ci proviamo con la proiezione di noi stessi in mondi artificiali, generati da effetti digitali o da sostanze psicotrope; ci proviamo con le estasi dell’amore, del piacere, del potere… Ma ritorniamo sempre faccia a faccia con noi stessi e col nostro limite. Eppure la sete di libertà e l’aspirazione all’altrove e all’oltre operano, al centro di noi stessi, con attrazione infinita. E la nostra vita si accende, diventa vigile e incandescente proprio quando rispondiamo a quest’attrazione. Tutta la tradizione culturale che va dalla Grecia all’umanesimo sostiene che l’uomo è l’universo in miniatura, ne ha tutte le componenti: minerale, vegetale, animale, spirituale, ma non si risolve in nessuna di esse. Sta al suo dono più grande e misterioso, la libertà, scegliere se realizzare la sinfonia di questi elementi o se distruggerla. Ma al centro del microcosmo umano c’è un abisso aperto: un luogo in cui spazio e tempo dileguano e che, per eccesso di attrazione, si mostra come buio ma è il contrario del buio. Qui l’uomo si sporge sul fondamento di se stesso, dialoga con la sua origine e con la sua fine, i cui estremi si toccano. Qui l’uomo cerca la salvezza di un io finito, che non riesce a uscire da se stesso con le proprie forze. Qui l’uomo avverte la sua trascendenza ma non sa come realizzarla, perché non può, se non nelle forme creative del desiderio.
Il letto da rifare oggi è spaziale. Procuratevi la foto del buco nero che i radiotelescopi dell’Event Horizon Telescope hanno catturato, fissatela in silenzio e poi entrateci dentro, viaggiate indietro o in avanti nella vostra vita, fino a raggiungere il bordo che si affaccia sull’abisso del prima della vostra nascita o dopo la vostra morte. Guardate da lì il vostro orizzonte degli eventi: chi e dove eravate? chi e dove sarete? Queste domande non sono una fuga dal quotidiano né un esercizio di fantasia, ma l’accensione di una vita presa sul serio. Infatti più vi sporgerete sulla vertigine del buio che vi circonda, più si mostrerà la luce che porta il vostro nome e che si è data e si darà solo una volta in tutta la storia umana. Ma anche questo non basta, perché la nostra luce vuole essere per sempre ed è infatti la luce che l’uomo cerca prima di spegnersi: quella sete inesauribile di luce dice e segnala che proprio in quel buio, che buio non è, deve esserci la Fonte.
Corriere della Sera, 6 maggio 2019 – Link all’articolo e ai precedenti
I misteri dell’universo mi hanno sempre affascinata.
Tutto ciò che ha a che fare con questo tema è SUBLIME nell’accezione kantiana del termine. Qualcosa di immenso e maestoso, ma al contempo terrificante.
È così che definisco i buchi neri. Ho fatto difficoltà a fare l’esercizio proposto da lei perché l’orizzonte degli eventi rappresenta, dal punto di vista scientifico, una trappola. Tutto ciò che finisce in un buco nero rimane intrappolato per sempre… Mi viene in mente qualche cartone del passato, il protagonista che aveva il compito di salvaguardare la Terra dai nemici, rischiava di rimanere intrappolato in questa dimensione diversa, universo parallelo. Chissà poi se i buchi neri sono questo, cioè degli universi paralleli con un altro spazio e un altro tempo…
È impressionante come l’immagine del buco nero assomigli all’immagine scintigrafica del cuore… È lì lo spazio della nostra gioia… Accogliere la luce nel profondo di noi stessi.
Efficace come sempre la sua scrittura!
La descrizione che lei fa di “quell’oggetto” , che ha incantato tutti aldilà del suo valore scientifico, ha una forza espressiva che cattura subito chi legge e lo spinge ad andare veloce sulle righe per il susseguirsi rapido di azzeccati aggettivi che è riuscito ad attribuire a “quell’occhio”. Subito dopo sposta l’attenzione sul significato che quell’immagine è capace di richiamare alla mente e sul perché ci ha così tanto attratti e spinti ad una introspezione rappresentata da pensieri, sentimenti,desideri. Utilizzando spunti presi dalla poesia, dalla filosofia,dalla letteratura, dalla cinematografia lei riesce a stimolare la curiosità anche dei non addetti ai lavori che così possono arricchirsi di nuove conoscenze. Proprio questo occhio dall’iride incandescente, del quale non si riesce a sostenere lo sguardo, diventa l’esercizio non facile che lei propone come letto da rifare questa settimana, utile per arrivare a quella soglia dove sperimentare, con la consapevolezza dei propri limiti, tra il bordo accecante e il buio del centro, lo spasimo dell’attesa di una risposta da dare ai molti perché che ci tormentano e potremo così forse essere raggiunti in quel varco da una speranza salvifica . Mi auguro che siano tanti, soprattutto tra i giovani, a mettersi alla prova in questo esercizio e che qualcuno non si arrenda ad un eventuale iniziale esito non soddisfacente e almeno uno tra questi possa riuscire ad apprezzare la vita e il suo mistero in modo nuovo da esperire.
GRAZIE PROFESSORE!!!!!!
M.R.D.M.
Grazie a lei per queste parole
parole che riaccendono la speranza… ho condiviso l’articolo. Un saluto di cuore