Letti da rifare 44. InstaGraal
All’improvviso il mare si placò e il vento che spirava furioso cadde in un silenzio anomalo. Le vele si afflosciarono e l’immobilità si riempì di una cantilena dolcissima. Solo Ulisse poteva sentirla grazie allo stratagemma che Circe gli aveva svelato per non farsi stregare dalle Sirene: orecchie libere ma legato all’albero maestro. I suoi compagni remavano a perdifiato, resi sordi dalla cera, nonostante il loro capitano urlasse di fermarsi e liberarlo, fuori di sé, lui, il più saggio degli eroi. Ricorderete tutti il fascino dei versi omerici dedicati alle Sirene, ma liberateli dall’immaginario corrente. Nel mondo greco erano uccelli rapaci con il volto di donna, esseri tutt’altro che attraenti, ma con una abilità canora capace di ipnotizzare, il cui potere seduttivo dipendeva soprattutto dal tema del canto. Le Sirene affermano di essere onniscienti: sanno tutto ciò che accade sulla terra, come le Muse, e in particolare ciò che è accaduto nella città di Troia. Stanno promettendo di raccontare la guerra di Troia proprio a chi, per troppo tempo, l’ha combattuta e cerca di tornare a casa. Che razza di seduzione è questa? Perché mai vorrebbe ascoltarle a tutti i costi, proprio chi ha già vissuto tutto in prima persona? Per un motivo vitale: per sapere se le sue gesta sono entrate nel racconto epico, che significa essere diventato immortale.
Nel mondo greco la verità è aletheia, ciò che non rimane nascosto, e non viene quindi dimenticato. La verità è ciò che viene alla luce, si impone nell’evidenza e viene conservato. Per l’eroe greco due erano i modi di diventare «verità» e non sparire nell’oblio della morte: avere una tomba riconoscibile e entrare nel racconto. La Memoria era la strategia per sconfiggere la grande nemica, la morte. La memoria delle sue opere è ciò che fa vivere per sempre un uomo, perché neutralizza lo scorrere del tempo. A partire dalla fiducia nella memoria come ciò che mantiene vivi, la Grecia antica ha costruito la sua grandezza. Non è certo un caso se le Muse, dee ispiratrici di arti e saperi, siano figlie di Memoria e Zeus.
E oggi la memoria ci garantisce di restare «vivi»? L’uomo è costantemente alla ricerca della vita che non muore, ogni nostro gesto è dettato da questa molla, che chiamiamo ricerca della felicità. Il legame tra memoria e vita che i Greci hanno intuito e ritualizzato ci aiuta a scandagliare il presente. Come funziona la memoria dalle nostre parti? Delle tombe, perno di tutte le culture del passato, a noi non interessa più molto, ma non è venuto meno il culto dei morti, necessario ad aggregare, oggi come allora, i componenti di una società. Per un anniversario tutti si profondono in elogi, sui giornali escono i consueti pezzi di «rito». Pensate al «fuoco memoriale» per il ventennale della morte di De Andrè, la scorsa settimana, bruciato in rapide e vivide fiammate. Un’intensità che mostra sia il bisogno di ricordare chi siamo, sia l’insufficienza di un rituale – spesso fine a se stesso – che è la versione profana e immateriale del memoriale celebrato attorno alla tomba. Ma c’è altro.
Avrete sicuramente sentito parlare della #tenyearschallenge, l’ultima sfida social lanciata su Instagram: condividere una nostra foto di dieci anni fa confrontandola con l’immagine di oggi. Probabilmente anche voi avrete ceduto alla tentazione, dal momento che l’idea ha avuto immediato e globale successo. Le star, i vip, e di conseguenza milioni di altri utenti, hanno postato una galleria infinita di immagini a doppia finestra 2009-2019, un «prima» e «dopo» quasi mai impietoso, anzi, sempre glorioso, nel quale la scelta accurata delle foto «vintage» migliori era essenziale per vincere questa gara a un solo concorrente: se stessi. In questo non c’è niente di male. Con le dovute differenze, come ai tempi di Ulisse, noi siamo convinti di essere vivi quando ce l’abbiamo fatta e le nostre gesta entrano nel racconto, imponendosi come «evidenti»: semplice e memorabile «verità». Per noi vincere la morte è avere successo, riconoscimento, visibilità, superarsi, essere sempre più belli, non mostrare mai una ruga, dentro e fuori: bere dal Graal dell’eterna giovinezza. E tutti gli altri? Sono infelici? Sfortunati? Morti che camminano? I social hanno la capacità — se noi glie lo consentiamo — di dividerci rapidamente in «vincenti» o «perdenti», così come in «verità» e «seguaci di queste verità»: la memoria oggi non è orientata a conservare il passato perché è risultato, alla prova del tempo, valido e quindi vitale per il presente, ma a moltiplicare il presente all’ennesima potenza che incanta, ammalia, seduce e che si dispone, come le Sirene, a ripeterti quanto vali. È un incantesimo efficace, che si nutre del bisogno profondo dell’uomo di autoaffermarsi e avere una vita più grande, ma che si risolve in una grande illusione. Anche io ci sono dentro e a volte riesco a riconoscerlo, a volte mi lascio sedurre. Ci accade come Ulisse: sappiamo che la vita è a Itaca, ma è dolce bere dalla coppa divina dell’immortalità ed entrare nella bolla in cui non esiste più dolore, fatica, sconfitta…
Volevo partecipare alla sfida, perché tutto sommato mi sembrava divertente, ma poi mi sono guardato intorno con più attenzione. Ho pensato agli adolescenti che dieci anni fa erano dei bambini felici e adesso si sentono esseri confusi e troppo brutti per essere al mondo. A tutti i trentenni che dieci anni fa si laureavano e oggi si arrabattano ancora per uno stage. Alle giovani coppie che hanno avuto un figlio e lottano ogni santo giorno per compaginare casa, lavoro, spese… A quelli che in questi dieci anni di crisi hanno perso il lavoro e sono rimasti a casa o ne hanno iniziato uno che magari li umilia. A quelli che si sono presi una malattia grave e la stanno combattendo, o hanno smesso di farlo. A tutti gli anziani soli per cui questi dieci anni sono stati solo una tortura. Oppure semplicemente a tutti quelli che hanno continuato a fare la vita di prima, senza sussulti, né traguardi, se non quelli ordinari di portare avanti un lavoro e una famiglia con dignità, non certo minore di chi ha avuto grandi successi. Non è la trita distinzione “cattivo chi ha successo” contro «buono chi ha sfortuna». Il becero bipolarismo dialettico dominante: vittima – boia, destra – sinistra, dentro – fuori, mi ha stufato fino alla nausea, perché riduce la realtà a un’astrazione mentale e scarnifica le persone, sostituite dalle loro appartenenze reali o presunte o dalle loro performance. Un sistema binario: o sei 0 o sei 1. Invece tutti meritano di poter raccontare, sia che si tratti di successi che di insuccessi, perché la dignità dell’essere umano sta nell’esserci e nel poter dare senso pieno a tutto ciò che gli accade. Non ci sono persone 0 e persone 1 in base al meccanismo prestazionale che misura i risultati, veri o presunti, che raggiungono, ma persone la cui vita, evidente o meno che sia, ha la stessa dignità di tutti coloro che occupano i nostri palinsesti mentali e culturali.
La nostra cultura fa un uso della memoria che in qualche modo umilia la persona che non emerge. Quando mi chiedono che cosa io pensi del crocifisso in classe, rispondo: è sbagliato, ce ne dovrebbero essere due! Infatti accanto alla croce di Cristo c’era quella di un poveraccio che, dopo averlo riconosciuto come innocente e giusto, gli chiese: «Ricordati di me quando sarai nel tuo regno». È un assassino, che si riconosce giustamente condannato, a chiedere «di essere ricordato», un solo ricordo buono gli basterebbe. E si sente rispondere: «Oggi sarai con me in paradiso». Un solo gesto di affetto di un assassino rivolto, in extremis, a un uomo innocente, si trasforma in salvezza. «Essere ricordati» da Dio e «essere in paradiso» sono la stessa cosa: per me è una consapevolezza luminosa e decisiva. L’unica Memoria che conta, di cui la nostra è solo un’approssimazione, è infatti quella eterna di chi conosce tutti i gesti quotidiani dell’uomo, e fa sì che nessuno di questi, neanche il più nascosto, si perda, ma venga pesato per la quantità di amore, non di successo, che contiene. Lo stesso Ulisse, passando accanto all’isola delle Sirene, si rese conto che non era altro che una scogliera coperta di ossa di uomini, che avevano subito la seduzione del nulla. Solo Itaca era qualcosa. Solo Itaca, con i suoi limiti e affetti, era reale.
Il letto da rifare oggi è allora considerare davvero questi ultimi dieci anni, mettendo un attimo da parte trofei, vittorie, risultati, e scrivere sotto una nostra foto, orgogliosamente ordinaria e casuale, una didascalia con tutto quello che ci ha fatto crescere nella capacità di ricevere e dare amore. Solo questo resterà di dieci anni e ci dirà, molto oltre il nostro aspetto, se stiamo invecchiando bene, cioè maturando. Immaginate un social in cui allora apparirebbero tutte quelle storie silenziose che conosciamo: un marito che ha accudito la moglie con l’Alzheimer, una ragazza che ha combattuto il tumore senza perdersi d’animo, un padre che si è rialzato dopo un fallimento professionale, una madre che ha accettato di ridimensionare la carriera per il bene di una figlia che aveva bisogno di maggiori attenzioni… Mi piacerebbe guardare in questo Instagram di Dio, in cui solo l’Amore viene ricordato per sempre, e pubblicato. Vedremmo le cose come stanno. La verità, finalmente.
Corriere della Sera, 21 gennaio 2019 – Link all’articolo e ai precedenti
grazie! noi perdiamo la vita, ma lei ci ritorna gentilmene incontro, attraverso una faticosissima verità.
Non riesco a capire come una foto personale possa da sola raccontare una storia. Davvero dobbiamo accontentarci di poco? Cosa stiamo diventando? Poche frasi ad effetto scopiazzate sotto una foto ritoccata? Più vedo questo e più mi immergo nella lettura di libri, opere, autori, poesie e ringrazio Dio per avermi dato la possibilità di fare questo anche per mestiere. Mi accorgo di ritrovarmi in mezzo alle storie vere che leggo, oggi quelle di Hetty Hillesum, in prossimità del Giorno della Memoria. Così riesco davvero a vedere il cavolo rosso che Hetty mangiava nel lager, mentre leggeva negli occhi delle donne che incrociava tutta l’umiliazione del mondo. Donne private del senso della vita, che diventavano per Hetty la fonte vera della vita, da amare come la propria poesia preferita. Solo così capisco anch’io che la nostra memoria è più potente di una fotografia, perché non implica solo la vista, ma tutti e cinque i sensi, e la testa e il cuore. E vado fuori a cercare avidamente la vita, scoprendola bella e brutta negli altri, ma vera. Le vere foto della nostra vita sono dentro ciascuno di noi, fuori c’è solo il riflesso. La storia di Odisseo dimostra, infatti, che ottenere la fama, grazie ai racconti delle sirene, non basta per la strada della felicità. Quella porta a Itaca, a casa, tra le braccia di chi ci accoglie, ci conosce e ci ama veramente.
Grazie per ricordarci che ogni giorno uno strato di polvere si deposita su di noi e offusca la nostra vera immagine e i nostri originali pensieri. Dobbiamo avere più cura.
Grazie per la stupenda riflessione, attendo sempre il Corriere del lunedì solo per la sua rubrica.
Buon lavoro!
A proposito di piacere paradossale : il suicidio ………….Sinceramente a me è venuto in mente lo spiaggiamento delle balene, è una forma equivalente di suicidio: la mia esperienza di lavoro sul cervello mi ha portato a delle conclusioni sconcertanti e riguardano appunto il cosidetto “piacere paradossale” che è una prerogativa della biologia e dunque della fisiologia animale. Tutti i sistemi biologici animali sono binari e perciò accade che quando un sistema (del binario) si satura, un’ulteriore sollecitazione di quel sistema “saturo” attiva l’antagonista. Orbene il sistema emotivo è composto da un binario: piacere/dolore. Orbene se il sistema del dolore si satura un’ulteriore sollecitazione “dolorosa” diventa paradossalmente piacevole. Ecco il suicidio: il soggetto che compie il suicidio prova un piacere paradossale – come accade nello spiaggiamento della balene – il soggetto sucida prova un piacere paradossale. Ho avuto la possibilità – lavorando al policlinico Umberto I° di Roma all’Università – di intervistare una ventina di tentati suicidio salvati in estremis. Tutti mi hanno confidato che erano convinti che suicidandosi sarebbero andati in paradiso. Si quella era la loro aspettativa e chiaramente e ovviamnente il sentimento che pativano era quello della vendetta, della rabbia cronica che è – in base ai nostri studi – il classico piacere paradossale. Uno stimolo doloroso – cioè il pensiero di ammazzarsi – diventa paradossalente piacevole (per es. occorre avere il sistema del dolore saturo come per es. per via della precarietà) e allora il pensiero del suicidio appare come una liberazione per andare – come nei casi da me intervistati – in paradiso. Ecco perchè la strada al suicidio è spianata…..ricercata…….e voluta…….
Caro Gianluca, i tuoi paradossi sono interessanti e ben verificati scientificamente. Se ami tanto stupirti, però, prova a guardar le stelle, quelle facelle che Dante divorava con gli occhi nel Purgatorio. Chi ama ed è amato, chi ha fede e speranza, difficilmente si va a spiaggiare, perché la vita non gli basta mai.
Ho letto il suo ultimo articolo : Infodemia, ma le rispondo qui perché non ho trovato lo spazio per i commenti.
Ho cercato un articolo che potesse avere un grado di “pertinenza” ed eccomi qui.
Non so il motivo, ma io non riesco ad apprezzare a fondo le tecnologie e questo è il mio paradosso perché mi trovo ad usarle tantissimo.
Il problema principale non è da ricercarsi nel processo di “vetrinizzazione dell’io” ( un libro del sociologo Codeluppi si intitola “Mi metto in vetrina”) favorito dai Social, ma il principale problema posto dalle tecnologie a mio avviso, è da ricercarsi nella scarsità della comunicazione. I messaggi sono stringati. A differenza dei blog come questo dove puoi scrivere molto, su Twitter, Facebook, Instagram e compagnia bella, i messaggi sono ridotti ai minimi termini (domanda :anche per questo oggi gli alunni scrivono risposte da una riga?). No, non c’è qualità di comunicazione sui Social, perlomeno su quelli che comprimono le capacità comunicative.
Il rischio è quello dell’equivoco, ma non solo :
Milgram, nel suo esperimento sull’autorità, dimostrò che quando le persone sono distanti tra loro e non si percepiscono, non si riesce più ad avere un “con-tatto emotivo”. I soggetti che facevano parte degli esperimenti di Milgram somministravano delle scosse elettriche ad altre persone presenti nella stanza al semplice comando dell’autorità. Tanto più le persone non si potevano vedere e quindi sapere le loro reazioni emotive, tanto più le scosse aumentavano.
Spesso succede questo sui Social : ci si basa sul l’istinto del momento e non capisce quanto l’altro possa equivocare le nostre parole e quanto possano fare male.
I Social non ci hanno avvicinato, ma ci hanno allontanato in maniera subdola.
Non si comprendono più le intenzioni di una persona, cosa ci vuole dire : comunica tristezza, panico rabbia, ci vuole fare male o esprimere qualcos’altro …?
Io penso che informazione e comunicazione siano in un rapporto inversamente proporzionale : quando l’informazione è inflazionata, è perché manca la comunicazione.
Perché la rincorsa alle informazioni? Perché manca la comunicazione.
L’OMS considera la comunicazione una Life Skills :un’abilita della vita, importante per il benessere emotivo della persona.
Dobbiamo cercare di lasciare da parte le tecnologie e le informazioni per un po’ e tornare alla comunicazione autentica.
Le tecnologie e le informazioni nascondono, la comunicazione (off line, ovviamente) porta alla luce: intenzioni, motivazioni, mimica facciale e quindi espressioni emotive.
Io voglio mettermi in questa condizione e scoprire il perché di un’azione, l’intenzione sottesa, il perché di una parola. Avvicinarsi agli altri con più luce naturale e con meno schermo luminoso del telefonino o del PC