Letti da rifare 43. La manutenzione dell’amore
Alcune famiglie al completo, nonni compresi, sono sedute ciascuna attorno a una bella tavola natalizia. Una voce fuori campo pone delle domande ai singoli componenti. Chi risponde correttamente rimane, se sbaglia esce dal gioco. Quale famiglia vincerà? I primi giri di domande, mirate sull’età e gli interessi di ciascuno, vedono trionfare tutti: come si chiama l’eroe di Game of Thrones? Dove sono andati in vacanza Ferragni e Fedez per Natale? Quanti goal ha segnato Ronaldo in questo campionato? Dove si sposerà Lady Gaga? Ma a un tratto le domande cambiano. Quale è il gruppo preferito di tuo figlio? Dove si sono conosciuti papà e mamma? Dove sono andati in viaggio di nozze? Dove lavora la mamma? Di che cosa si occupa esattamente papà? Che cosa faceva il nonno prima della pensione? Qual è la canzone preferita di tua figlia? Il libro preferito di tua sorella? Il sogno di tuo fratello? Perché papà e mamma ti hanno chiamato così? A queste domande, apparentemente più semplici, i componenti della famiglia danno risposte sbagliate o non sanno rispondere. I tavoli si svuotano. Ho rielaborato una pubblicità che mostra, amaramente, che sappiamo tutto di persone lontane e niente di chi ci sta accanto. Preferiamo le infinite e immaginarie emozioni delle relazioni virtuali alla gioia faticosa di quelle reali. Perché passiamo, in media, 24 ore a settimana con il telefono in mano e gli occhi sullo schermo e non abbiamo il tempo per parlare faccia a faccia o mano nella mano?
La maggior parte delle lettere che ricevo dai ragazzi riguardano sofferenze nascoste, da casi gravi (anoressia, bulimia, dipendenze, autolesionismo) a più ordinarie, ma non meno dolorose, solitudini. I ragazzi si confidano con uno sconosciuto e io, non conoscendo le loro storie e situazioni reali, dico loro che la prima cosa da fare è parlare con i genitori o altri adulti di riferimento, ma spesso mi sento rispondere: non capirebbero, rimarrebbero delusi, non hanno tempo, mi hanno detto di non dare peso alla cosa, passerà… Ecco una delle ultime lettere ricevute: «Ho 18 anni e mi sento vuota. Scrivo, sperando che qualcuno legga l’email confusa, scritta tra lacrime salate, di una ragazza che non ne può più. Ti scrivo la sera della vigilia di Natale perché è l’ennesima vigilia che nasce piena di buoni propositi e speranze che poi vengono spezzati dai miei. Mi capita di pensare di scappare via e lasciarli con una frase: “Avete rotto un legame: adesso è andato via, irrecuperabile”. Non so come affrontare la situazione e con chi parlarne. Potrai dire che ci sono i professori: per me sono degli estranei, pronti a svalutarmi. Potrai dire che ci sono gli zii e i nonni, ma è anche a causa loro che alla vigilia di Natale mi trovo dietro allo schermo, scrivendo e sperando che la persona a cui chiedo aiuto mi legga. Potrai continuare a replicare che ho un mondo di persone con cui potrei parlare ma quelle persone non mi stanno realmente a sentire e tutte le volte che ho provato sono stata descritta come problematica, disagiata, insomma da curare. Non so più in cosa credere. Non so il significato reale di donarsi, quali siano i veri valori da seguire, cosa voglia veramente dire Natale. Non so cosa si prova a ricevere una carezza di qualcuno importante. Recentemente in una discoteca mi stavo per avvicinare al bancone per una birra, quando un ragazzo sconosciuto mi ha messo la mano sulla spalla e mi sono sentita “presente” ma, l’attimo dopo, allontanandomi da lui, mi sono resa conto che in quel tocco c’era una solitudine immensa e che non si sa realmente quale sia il significato di amore. Mi sono resa conto che la discoteca è un bordello per chi non vuole sentirsi solo il mattino dopo, al risveglio. Mi sono resa conto che non sono l’unica a essere ignorante delle basi della vita e non so a che cosa sia dovuto». Parole scritte a uno sconosciuto, la vigilia di Natale, da una tastiera. La lettera si apre con un «mi sento vuota» (ricerca di pienezza) per approdare, con perfetta coerenza, alla domanda: quali sono le basi della vita e perché non le ho ricevute (ricerca di senso)? La «pienezza di senso» è ciò che spesso manca a questi ragazzi e molto dipende dalla qualità delle relazioni principali.
Tempo fa lessi un libro, molto pragmatico e semplice, di Gary Chapman, un consulente familiare: «I cinque linguaggi dell’amore». L’autore spiega che ciascuno di noi impara a riempire il proprio «serbatoio dell’amore» da bambino, sulla base dei cinque possibili modi in cui l’amore viene trasmesso nelle relazioni. Li usiamo tutti e cinque, ma ognuno ha la sua classifica e dà amore nel linguaggio con cui lo ha ricevuto, sicuro che anche l’altro parli lo stesso, ma non è così. Spesso una relazione (di coppia, d’amicizia, educativa…) non cresce perché le persone non usano l’uno il linguaggio dominante dell’altro: ciascuno fa il suo discorso amoroso che, per quanto sincero, l’altro non riesce a recepire, perché è sintonizzato su un’altra stazione. Tante relazioni si rovinano, benché ci sia impegno, semplicemente perché non si parla la lingua altrui, convinti che la propria sia l’unica. Ecco i cinque linguaggi. 1) Parole di incoraggiamento: tutta l’area delle parole di conforto e rassicurazione («figlio mio, sono fiero di te», «figlia mia, se potessi scegliere tra tutti i ragazzi del mondo sceglierei te», «sei una moglie eccezionale», «caro, hai fatto un lavoro perfetto»…). 2) Momenti speciali: vicinanza e ascolto esclusivi (eliminando ogni distrazione: cellulare, tv, giornale…), insomma dialogo con contatto visivo costante, senza interrompere, osservando il linguaggio del corpo altrui, chiedendo chiarimenti e il permesso per dire la propria opinione. 3) Doni: non grandi regali ma piccole cose e gesti frequenti e sentiti, cioè personalizzati (un biglietto affettuoso, un fiore inaspettato, un piatto speciale, una canzone azzeccata…). 4) Gesti di servizio: partecipare ai lavori di casa e non, gratuitamente, facendoli insieme (dalla lavatrice ai piatti, dal mettere i panni sporchi nella cesta a sparecchiare la tavola, dalla spazzatura alla spesa…). 5) Contatto fisico: gesti affettuosi, da una carezza data senza motivo a un abbraccio quando si rientra a casa, da un bacio sugli occhi stanchi la sera a uno sulle labbra uscendo di casa, dal prendersi per mano in pubblico al saper ascoltare il corpo dell’altro nell’intimità amorosa. Chiaramente ogni linguaggio va adattato al tipo di relazione e all’età delle persone: saper amare in fondo è imparare ad usare tutti i linguaggi con naturalezza.
Avendo ognuno di noi uno o due linguaggi privilegiati, se non conosciamo quelli delle persone vicine, anche se le «amiamo», non riusciremo a farle «sentire amate». Anzi magari ci colpevolizzeremo se non rispondono, ma stiamo semplicemente parlando lingue diverse. Se l’amata preferisce il «tempo di qualità» un uomo non può cercare sempre e solo il «contatto fisico». Se un figlio ha bisogno di «parole di incoraggiamento» non serve sbrigarsela facendogli «doni». Sono esempi generici: occorre osservare, chiedere, provare, e poi stilare la graduatoria dei cinque linguaggi, propria e di ciascuno, per impegnarsi a usare quello adatto a riempire il serbatoio dell’amore altrui, uscendo dal proprio modo di amare e imparando anche gli altri: questo fa maturare sé e la relazione. Ho alunni a cui serve una mano sulla spalla, altri a cui fa bene un «sono fiero di te», ad altri devo regalare un libro e ad altri ancora offrire un caffè a tu per tu. Ognuno può ricevere amore solo nella lingua in cui riesce a comprenderlo: la porta delle persone si apre solo con la chiave adatta alla loro storia, non esiste il passepartout. E la persona, nella sua unicità, emerge e si consolida solo quando si sente dare del tu dall’amore.
Quando i miei genitori hanno festeggiato un importante anniversario di matrimonio, noi figli abbiamo recuperato, da una scatola che ritenevano ben nascosta, le loro lettere. Le abbiamo rilegate in ordine cronologico in un libro che abbiamo regalato loro. Noi figli non le abbiamo lette (o quasi…), per rispetto della loro intimità, ma quelle righe, scritte a mano con cura e trepidazione, erano la futura storia di ciascuno di noi. Non sarà possibile farlo con le mail e i messaggi whatsapp, a meno che non decidiamo di prendere carta e penna. Avete mai scritto una lettera (magari a mano) a vostro figlio, ai vostri genitori? Io lo consiglio sempre a chi non riesce a confidarsi faccia a faccia. Una mail dopo un po’ non si rilegge e non si conserva, al contrario di una lettera scritta a mano. Queste sono «le basi della vita» e richiedono una calma creativa. In questo nostro tempo, troppo veloce e ingolfato, forse proprio per zittire l’urlo del cuore vuoto, così come per pensare bisogna fermarsi a pensare, per amare bisogna fermarsi ad amare.
Il letto da rifare è trovare il tempo, un poco ogni giorno, per immaginare, e poi realizzare, un gesto quotidiano per ogni relazione fondamentale, in base al linguaggio dell’amore principalmente usato dall’altro. La manu-tenzione dell’amore si fa con gli strumenti giusti, e così l’amore cresce, altrimenti, pur con tutte le buone intenzioni, l’improvvisazione e la routine ne diventano la fatale mano-missione.
Corriere della Sera, 14 gennaio 2019 – Link all’articolo e ai precedenti
Buongiorno Ale D’Avenia.
Proprio ieri mattina ho seguito un corso sulle New Addiction tenuto da una psicologa che lavora nelle scuole e nelle comunità di recupero per persone con problemi di tossicodipendenza.
Si parlava di vecchie dipendenze (droghe, alcol) e nuove dipendenze (cellulare, Internet, social, giochi d’azzardo e videogiochi).
Si parlava dei pericoli della rete (pedopornografia, “incontri” di adolescenti con persone che hanno un falso profilo e doppi fini etc).
Anche i social, Internet possono diventare dipendenze o, meglio, trappole, gabbie, se non stiamo attenti ed è giusto non incentivare le “amicizie” e i rapporti virtuali a scapito di quelli reali, anche se più faticosi.
Ma perché si prende la decisione di confidare i propri dolori, angustie e segreti ad un “estraneo”?
Ho elaborato una mia tesi in proposito : innanzitutto, i concetti di “estraneità” e di “familiarità” sono relativi.
Sono più familiari gli estranei che, senza secondi fini, ti incoraggiano, ti supportano, ti ascoltano empaticamente che non una persona familiare (come un amico) che, sistematicamente, è indifferente, ti sparla dietro, ti etichetta e ti scoraggia.
Dal mio punto di vista, è peggio la distanza psicologica che non quella fisica ed è la prima a decretare, per me, il senso di “estraneità” di una persona.
Con la lontananza a livello fisico, volendo, puoi comunicare, creare “ponti” o ricostituirli.
Con la lontananza psicologica non ci fai nulla perché si creano barriere invisibili ma insidiose.
Non dico che l’estraneo possa sostituirsi ai genitori.
Questo mai ma, sicuramente, può sostituirsi a quel tipo di amici che a parole si proclamano tali e poi si rivelano inaffidabili.
Inaffidabili non perché lontani fisicamente, ma lontani psicologicamente.
Mi viene in mente una scena del Vangelo: Gesù sta predicando e, ad un tratto, gli dicono che Sua madre e i Suoi fratelli lo stanno aspettando. Lui risponde che Sua madre e i Suoi fratelli sono chi compie la volontà di Suo Padre.
Questa frase richiede, sicuramente, un’altra interpretazione rispetto alla mia. Per me, implica il fatto che il vero “familiare” non è quello vicino (e indifferente), ma quello che ti supporta. Fermo restando che i genitori sono importantissimi nella vita di una persona e insostituibili!
Un altro problema che ho riscontrato nei rapporti reali è la mancanza di autenticità.
Secondo me, non è la noia ad essere nemica della Bellezza e delle relazioni (anzi, in certi casi può essere utile), ma la falsità.
Vedo che non c’è sincerità (quando in un rapporto d’amore o d’amicizia le cose non vanno) di dirsi cosa non funziona in quel legame. Non c’è il riconoscimento dei propri errori e il coraggio di chiarire, ma si frappongono sempre più barriere psicologiche.
Manca il coraggio delle /nelle relazioni. Troppo facile scappare senza chiarire e senza fornire motivazioni.
A volte, noto anche invidia, competizione tra amici.
Per questo non mi risulta difficile capire perché si scrive ad un estraneo.
Voglio ripetere questo concetto che è molto personale : per me vale 100 volte di più un estraneo che è sincero e ti ascolta di dieci amici che ti sorridono e poi ti pugnalano alle spalle!
Cara Isabella, hai detto alcune cose molto vere, altre che non sento di poter condividere e per questo vorrei offrire un altro punto di vista. La prima cosa che tengo a dire è che le persone estranee che ci danno incoraggiamenti, non sanno nulla del nostro vissuto, della nostra storia, se non quello che noi abbiano voluto raccontare, o potuto, a seconda del tempo che vi abbiamo dedicato. Possono avere una veduta parziale (molto) di come siamo e come siamo arrivati fin qui. Le persone della nostra famiglia, d’altro canto, molto spesso, possono sembrare indifferenti. Posso invece dire che in molti casi non è affatto vero, c’è tanta voglia di capire e non giudicare, c’è voglia di avvicinarsi, ma i ragazzi allontanano, chiudono le porte, non solo fisicamente. Come giustamente dici tu, manca il coraggio, da ambo le parti, di cercare questa “lingua di terra” dove ci si possa incontrare e dove possiamo lasciar cadere le maschere da ragazzi saccenti (passami il termine) e da adulti navigati (“ai miei tempi era diverso “). Come avrai capito, sono al di qua, dalla parte dei genitori, e posso dire che fa male quando voi ragazzi ci chiudete fuori senza darci nessuna chance. Noi ci siamo, vorremmo dirlo anche ad alta voce, ma voi ragazzi chiudete ancora prima che si intravede uno spiraglio, dicendo :” non potete capire”. Non fate l’errore di cercare altrove, in estranei, la comprensione e l’incoraggiamento, me lo sento col cuore di dirvelo. Possono sembrare persone che vi sono più amiche, ma in verità, nel fondo, è un’illusione, lo sapete anche voi. Chi può volere solo e soltanto il vostro bene, sempre e comunque, qualunque cosa facciate, e chi vi sostiene sempre, anche nel silenzio, che, a volte, manteniamo per rispettarvi e non dire sciocchezze, siamo noi, i genitori, i vostri cari.
Riproviamoci ancora, dunque, ne vale sempre la pena.
Se un ragazzo o una ragazza scrive ad uno sconosciuto esprimendo il proprio senso, il proprio sentire, la propria anima penso che lo faccia perché è realmente consapevole che nessun altro possa porgere l’orecchio. Non scriverebbero se non volessero essere aiutati.
Ma il grido di aiuto è per uno sconosciuto. Perché? Lo sconosciuto in questione dimostra ai loro occhi di ascoltare, di guardare, di mettere a disposizione dei ragazzi tutti i sensi, tutti gli organi di prensione del mondo e di sintonizzarli su un piccolo mondo, un granello, o meglio detto (alla D’Avenia), un seme. Questo sconosciuto D’Avenia parla realmente la loro lingua.
Io proporrei a genitori, parenti, amici di imparare il linguaggio dei bambini, dei ragazzi. Di farsi insegnare i singoli simboli, di decodificare insieme a loro codici criptici. Bisogna sudare, ma la relazione è assicurata. Siamo tutti in grado di parlare la lingua dell’amore.
Ciao Stef!
Ti ringrazio della risposta, ma temo di non essermi espressa bene.
Forse ho sbagliato a tacere la mia età : ho 33 anni, quasi 34. Anche se questa società ti induce a credere di essere ragazzo/a anche a 40 anni, io mi sento adulta.
Spero solo di essere all’altezza della mia età!
Quindi, chi ti parla ha già smesso, da tempo, di vestire i panni dell’adolescente (anche se gli anni sono passati in fretta) ed è una donna che lotta quotidianamente contro le derive di una società che non ti valorizza come adulto, ma che appiattisce tutte le età a quella dell’adolescenza.
Dicevo che forse non mi sono espressa bene perché nella mia risposta precedente ho valorizzato il ruolo dei genitori. Se è necessario, lo rimarco: i genitori sono figure fondamentali della vita di una persona.
Questo concetto che ho detto lo vivo e l’ho vissuto anche quando ero ragazza: non ho mai tenuto fuori i miei genitori dalle mie tormentate vicende quotidiane, soprattutto mia mamma che è stata la mia consigliera e, quando poteva, anche mia nonna.
Certo, quando sei adolescente senti di andare oltre la propria famiglia (senza dimenticarla) e costruirti un gruppo di amici e di intraprendere le prime relazioni sentimentali.
Detto questo, non potrei mai dimenticarmi della mia famiglia. Se sono arrivata fino a questo punto e raggiunto i miei obiettivi lo devo ai miei.
Io parlavo di relazioni false con amici (non virtuali). Ne ho avuti tanti falsi e pochi veri. Quelli veri cercano sempre di trovare il tempo per te, di dirti cosa non va e sono sinceri. Quelli falsi non è facile riconoscerli, ma te ne accorgi chi sono perché non ti incoraggiano,ti svalutano e ti “stigmatizzano”.
Concludo dicendo che ti ringazio per la tua risposta!
Qualcosa mi dice che questo articolo era più lungo e corposo, mi sembra che ci sia tanto altro da dire dalla mancata conoscenza tra familiari, alla pienezza, anzi vastità del vuoto della ragazza, ai linguaggi dell’amore squisitamente analizzati, all’etimologia di manu-tenzione e mano-missione. Insomma l’amore è una cosa seria. Vale tante parole, tanta osservazione, tanto ascolto, tanta riflessione, tanta passione, tanti gesti, tanti slanci, tanti sbagli, tanto impegno, tanto tempo. Dare e ricevere l’amore: l’unico senso possibile.
È per questo, cara Stef, che si arriva a scrivere ad un estraneo. Almeno dal mio punto di vista.
Conosco alcune persone, adolescenti e non, che si lamentano perché le relazioni con gli altri non sono autentiche.
Se io, ad esempio, non mi comporto bene voglio sapere da un amico dove sbaglio. Molti “amici” non dicono niente, dicono che va tutto bene e poi fanno gli offesi decidendo di interrompere senza motivo la relazione o, peggio, parlandoti alle spalle. Ma la vera amicizia non funziona così!
Capisco che in questa discussione sia importante dichiarare la propria età, io ho più di 60 anni. E dunque nel gioco proposto all’inizio non so rispondere a nessuna delle domande del primo gruppo e solo ad alcune del secondo. Non di meno la domanda porta con se un fascino che la risposta non sa esaurire. In questo intravedo il bisogno di domandare che non coincide affatto con il bisogno di ottenere risposte. Soprattutto quando le domande sono certe domande.
Non ho un’istruzione liceale ma ricordo che spesso nei problemi di geometria o di fisica veniva chiesto di calcolare la distanza tra due punti o tra due corpi. Ma anche quando i due corpi erano vicini, cioè poco distanti. Perchè quando diciamo che una cosa è distante, intendiamo dire che è lontana. A nessuno viene il dubbio che la distanza sia piccola e che quindi l’oggetto sia vicino e non lontano. Chissà se una persona distante da noi è poi così lontana.
Mi piacciono i commenti a questo “Letto da rifare” aiutano a riflettere. Ad esempio perchè ad una persona che ci dice “ti amo” spesso non sappiamo cosa dire ed invece ad una che ci dice “non ti amo più” rispondiamo subito “perchè?”
Caro Claudio, la destrutturazione di spazio e tempo, sono la grande novità della connessione. Sta a noi ridefinire cosa significano… Ottimo spunto
Caro D’Avenia in realtà i ragazzi non si confidano con uno sconosciuto ma i suoi libri, i suoi articoli, le sue conferenze, il suo teatro, la svelano come un instancabile e indomito ricercatore e scopritore di ciò che è bello,buono,giusto,vero…..ed è proprio di questo che ha maggiormente bisogno il cuore dei ragazzi di oggi!!!Come del resto il cuore dei ragazzi di ieri….ma incontrare nel contesto attuale chi ha questa passione per la vita è diventato sempre più raro, per questo vedono in lei un riferimento a cui affidare il loro desiderio inascoltato di essere accettati, compresi e perfino amati!!!sarebbe perfetto se lo trovassero nei genitori , nei professori e in tutte le persone che dovrebbero accompagnare il loro cammino umano ma purtroppo oggi non è più così in tanti casi!!!distinti saluti!
Ciao Andrea.
Sono perfettamente d’accordo con te!
Una persona che ascolta gli altri in modo empatico e si lascia coinvolgere nella loro vita interessandosi a loro, non potrà mai essere un estraneo. Non me ne intendo di etimologia delle parole, ma credo che estraneo derivi da straniero. Straniero non tanto dal punto di vista etnico, ma nel senso di ciò che è strano, che è totalmente altro.
Io credo che tutte le relazioni (educative, d’amicizia etc. ) abbiano almeno due pilastri: 1) Autenticità (che non vuol dire solamente non dire menzogne, ma riguarda il nostro stile di vita e noi stessi), 2)Ascolto attivo (inteso non come passività, ma anche come modo per automigliorarsi).
Se mancano queste basi, crolla l’edificio delle relazioni.
Personalmente, non mi posso lamentare delle relazioni sul luogo di lavoro. Anzi, si è creato un bel gruppo che coopera, che ascolta, che dialoga (e non chiacchiera e basta),quando riusciamo, ci vediamo fuori l’orario e il luogo di lavoro.
Però so che nella maggior parte dei casi si fa proprio difficoltà anche a capirsi.
Così posso dire che mi è successo nell’amicizia tradizionale (uso questo termine per distinguerla dalla “colleganza”).
A volte, demonizziamo le tecnologie di essere la causa di tutti i mali e della falsità, ma la falsità alberga nell’animo umano, non nelle tecnologie. Con le tecnologie puoi falsificare il tuo profilo, ma solo se sei tu a volerlo falsificare.
Tornando al discorso principale, credo, come te, che gli adolescenti abbiano bisogno di interfacciarsi con una persona autorevole che non giudica, che non si ferma alle apparenze, che parla il linguaggio della vita e comunica il possibile significato dell’esistenza, che condivide esperienze e conoscenze, come fa D’avenia.