Letti da rifare 24. Non crollano solo i ponti
È la prima campanella dell’anno scolastico quella che suonerà tra poco: l’ennesima promessa di un nuovo inizio, rintocco del desiderio umano che non smette mai di sperare che una vita rinnovata e più piena possa sorgere dal ripetitivo orizzonte quotidiano. Immagina, cara/o collega, di sederti al posto di un tuo studente in questo primo giorno. Guardati entrare in classe, osservati: dal portamento ai libri che hai con te. Che cosa vedi? Perché sei lì? Per chi sei lì? Perché hai scelto chimica, italiano, fisica, diritto… e hai scelto di raccontarli a una nuova generazione? Rispondi a queste domande mentre ti vedi disporre gli strumenti del mestiere sulla cattedra. Adesso ascoltati formulare l’appello. Come pronunci i nomi dei tuoi studenti? Come guardi i loro volti? E che cosa vedi sul tuo?
Forse nel tuo sguardo puoi scorgere delusione e stanchezza, per un sistema che non valorizza la tua personalità e la tua professionalità… Ma ricorda che i ragazzi saranno lo specchio di ciò che trasmettono i tuoi occhi, perché lo sguardo umano non è mai neutro ma contiene esattamente la vita che vuole dare o togliere, così dal loro sguardo saprai sempre com’è il tuo. Desiderano ciò che tu desideri: essere riconosciuti, valorizzati, supportati. Non vedi, forse, la tua stessa carne? Perché non prendersene cura come vorresti si facesse con te? Proprio perché loro non sanno ancora farsi carico della vita, è a te, adulto, che chiedono di provarci, per poter scoprire che maturare è un’avventura e non una colpa da espiare. Essere adulti è questo: finita l’iniziazione alla vita, riuscire a portarne il peso, come un padre solleva suo figlio perché colga i frutti sui rami a cui neanche lui arriva. Se ti avvicini puoi scorgere sui loro volti i segni della solitudine e della paura: la spavalderia, le provocazioni, i silenzi, le maschere di questa età tradiscono il desiderio di avere un nome, di abitare la vita. Non sono forse i segni della tua stessa ricerca? Ma come far sì che la speranza sia sempre un passo avanti rispetto alla paura? Da dove attingere la pazienza e la generosità per farsi carico di queste vite? Un pensiero ti conforta: tu sai che sono la cultura e le buone relazioni le risposte a questa ferita, alla fragilità dell’io rispetto alla pienezza a cui aspira. La cultura generosamente condivisa nella relazione educativa, la trasmissione del vero, del bello, del buono, resistenti al tempo vorace, sono proprio ciò che consente di dare peso e senso alla vita, la risposta umana al nulla: «Ove tende questo vagar mio breve? E io che sono?», ti interrogano con le parole di Leopardi. Ti chiedono di «soffrire» per loro, e il verbo vuol dire sia «portare il peso» della vita sia «dare» la vita: concepirli e generarli. Non respingerli nel buio, lasciali venire alla luce, attraverso di te.
Ma c’è quella luce nei tuoi occhi? Come sarà la tua prima lezione? Come nelle sinfonie la prima lezione è la tonalità da cui dipende tutto l’anno: il tuo spartito svilupperà il tema giorno per giorno e loro sono gli strumenti, tutti necessari, dell’orchestra. Tu, maestro, sai che la musica non è tua, ti precede, ma sei tu a interpretarla, realizzarla, darle forma, insieme a loro. Senza loro agiti la bacchetta nel nulla. Avete bisogno l’uno degli altri, solo così l’armonia accadrà. Lo so: è faticoso, i colleghi sono a volte difficili, lo stipendio fa pena, le riunioni sono lunghe, le scartoffie troppe, i genitori ingombranti. Puoi voltarti dall’altra parte e dire che non sono affari tuoi. Invece lo sono. La tua eredità sono loro.
Ero a Genova quando è crollato il ponte. Il silenzio che ha avvolto la città era infranto solo da ambulanze ed elicotteri e, negli intervalli muti, si affollavano i «perché» con cui la mente cerca di strappare un senso alle catastrofi. Siamo arrivati tutti a una conclusione, purtroppo frequente nel nostro Paese: bisognava pensarci prima. Anche la scuola è un ponte che, ogni giorno, trasporta quasi 9 milioni di vite da un destino a una destinazione, dall’informe alla forma pienamente umana della vita. Proprio tu sei chiamata/o alla manutenzione ordinaria e straordinaria del ponte. Guardati entrare con la tua cassetta degli attrezzi: alla tua professionalità sono affidate le loro vite. Come avresti voluto ti si guardasse e che cosa avresti voluto sentire? Non certo quello che disse una volta una docente, fissando la nuova classe, il primo giorno del primo anno di superiori: «Siete troppi, vi ridurremo». Il tu viene alla luce solo se l’io dell’adulto lo concepisce e lo genera, e l’io non per questo si perde, anzi è rigenerato come accade ai tessuti di una madre in dolce attesa. Insegnare è una delle migliori cure contro l’invecchiamento che io conosca.
Durante l’estate ho passato dei giorni insieme a mia sorella che ha una bambina di pochi mesi. Era una gara a intuire di cosa avesse bisogno e, chi dei familiari entrava nel raggio di azione dello sguardo di Beatrice, era attratto dalla forza di gravità della «cura». L’empatia, l’intuire di che cosa la vita in formazione ha bisogno, è vitale per il bambino e per chi gli sta attorno: noi umani non ci prendiamo cura dei piccoli perché li amiamo, ma li amiamo perché ci prendiamo cura di loro. Curando, impariamo ad amare e conoscere, e così maturiamo anche noi. Bambini e adolescenti vengono alla luce se trovano educatori in grado di nutrire il loro bisogno di avere una forma: formarsi. E lo chiedono a chi è già «formato», ma se costui non se ne cura le vite crollano. Il docente, mediatore tra l’informe e le forme di vita che racconta, a partire dalla sua, è chiamato alla cura, per professione. Rifiuto la retorica che attribuisce al mio mestiere la parola «missione», perché ascrive l’empatia, strumento professionale necessario al riconoscimento della vita altrui come propria, all’ambito di supereroi e mistici. Empatia non è sostituirsi agli alunni, ma conoscerne e sostenerne battaglie, contraddizioni, domande, offrire risposte adeguate se le abbiamo, o una presenza adeguata se non le abbiamo. I ragazzi vogliono adulti veri: né amiconi nostalgici dell’adolescenza né aridi erogatori di nozioni. La cultura non è una sovrastruttura snob, ma il modo in cui la vita umana cerca il suo compimento. Non basta informare, occorre formare: aiutare la vita a compiersi e a dar frutto. Per farlo serve generosità, che ha la stessa radice di generare. La relazione educativa o è generativa (amplia il naturale desiderio di far esperienza della realtà) o è degenerativa (chiude il desiderio, annoia, spegne il coraggio e la curiosità). La generosità educativa è anch’essa professionalità e non volontariato. È generoso chi genera, cioè afferma la vita dell’altro come necessaria e si impegna, come può, al suo compimento, come i bastoncini con cui mia nonna sosteneva le piantine incerte, perché crescessero verso la luce, approfondendo così le loro buie radici. Non c’è compimento senza concepimento, non c’è generazione senza generosità. E una generazione non generata prima o poi crolla.
Qualche giorno fa mi ha scritto una ragazza che sarebbe precipitata nel baratro di una malattia se una professoressa non fosse stata «empatica» e «generosa», affrontandola a tu per tu alla fine di una lezione. Mi ha chiesto di dar voce alle sue parole: «Vorrei chiedere a tutti i professori di fermarsi, anche solo un attimo, di alzare lo sguardo dal registro e guardare negli occhi i ragazzi. Non limitatevi a segnare l’assenza, ma chiedetevi se veramente gli studenti sono lì, chiedete loro come stanno, dando peso alle risposte perché, spesso, noi ragazzi diciamo che va tutto bene, anche quando stiamo morendo dentro. Il vostro compito non è esclusivamente spiegare, interrogare e valutare. Voi siete in grado di vedere più lontano dei genitori: a scuola proprio perché ci si sente invisibili emergono le più piccole debolezze. Avete idea di quanti ragazzi nuotino controcorrente senza scoprire le proprie capacità? Quanti credono di essere inutili? Quanti concorrono per un voto come fossero oggetti? Mi capita di pensare a come sarebbe andata a finire se quel giorno la mia professoressa non mi avesse fermata e non mi avesse guardata negli occhi. Forse oggi non sarei qui». Di norma non si tratta di casi limite, ma di mostrare che ci si sente responsabili della loro vita, magari con un sincero e sorridente «come stai?»: portare il peso a volte è semplicemente «dare peso». Un adolescente si decide a maturare se sente che un adulto vuole farsi carico della sua vita, perché così scopre che è buona, e il suo coraggio si attiva vincendo la paura, perché vede un altro impegnato per lui. Ciò che ci aspettiamo da loro deve essere prima in noi: questo è educare, e l’istruzione ne è solo una conseguenza. A noi chiedono di impegnarci per un volto e, solo dopo, per un voto. Un anno scolastico in cui non cresco in amore e conoscenza della materia e dei ragazzi, per me è un anno perso.
Il letto da rifare oggi, il primo dell’anno scolastico, è la manutenzione delle anime. Come noi insegnanti ci aspettiamo che loro ascoltino noi, possiamo «ascoltare» i loro volti, perché ascoltare un adolescente è capire ciò che non dice. Come i ponti, anche le anime possono crollare per incuria. Guardati. Che cosa vedi? Guardali. Che cosa vedi? Buon anno a tutti.
Corriere della Sera, 3 settembre 2018 – link all’articolo e ai precedenti
Premetto solo che ho le lacrime agli occhi…Ho letto ogni frase che mi ha lasciata profondamente colpita nell’anima…da tanta dedizione,coinvolgimento e determinazione…Auguro al prof.DAvenia ogni bene possibile,dare tutto se stesso per gli studenti,per trasmettere tutto ciò che ha di umano e di cultura è magnifico…emozionante…
È tutto vero e auspicabile ,ma bisogna esortare anche i ragazzi . studenti contagiate i professori addormentati con la vostra voglia di vivere, fate si che la vostra sete di conoscenza prenda forma , imparate a chiedere ,a bussare ,non vi avvilite se un prof. è stanco , o …peggio. So che dovrebbe esseere il contario , ma che ci possiamo fare ? Non si puo aspettare ,sedersi e lamentarsi, studenti insieme si possono fare cose belle , il bello chiama bello : è contagioso. La bellezza salverà il mondo.
Come vorrei che le sue parole entrassero a far parte della vita di tutti quelli che come educatori hanno il compito di “tirar fuori” il meglio, il talento, il coraggio di ogni ragazzo. Rincuora vedere che ci sono professori appassionati osservatori della vita dei ragazzi, ricercatori delle loro debolezze e punti di forza. Grazie per il suo lavoro
Grazie di cuore per le tue parole. All’inizio di ogni anno scolastico c’è bisogno di ritrovare il significato del proprio operare.
Grazie Prof. per le sue parole e per il suo entusiasmo, che cercherò di ritrovare…
Mi piace molto insegnare, ma il contesto in cui mi trovo è davvero difficile, studenti a parte, che continuano a richiedere le sezioni dove mi spostano anno dopo anno.
Infatti le cattedre sono volutamente frammentate per controllarti meglio, le materie sempre diverse e conosciute solo all’ultimo (e al ginnasio sono otto – italiano, latino, greco, storia e geografia – e non indifferenti!), i libri di testo sempre diversi (perché non pochi colleghi si dilettano a cambiarli di continuo: infatti non garantendo professionalità e preparazione, vogliono così costringerti a diventare come loro); la continuità didattica spesso rappresenta una situazione di comodo per il Dirigente, ma per qualche docente diventa schiavitù, perché ne rinnova la frammentarietà e l’insoddisfazione. Così inutile fatica e continua gavetta sono garantiti anche dopo vent’anni di insegnamento.
E la porta è sempre chiusa quando anche tu docente hai bisogno di supporto, perché spesso sei una mamma e devi anche un po’ seguire i tuoi figli oltre agli studenti…..
I miei figli sono sempre quelli che pagano questa situazione per la mia assenza a causa del mio continuo dover studiare e del mio correggere compiti, con un marito che mi grida: ” Ma dopo vent’anni, ancora questi problemi, cambia scuola!”
Comunque cercherò di entrare in classe con il sorriso, inseguendo quel sogno di scuola in cui entrambi crediamo, ma che ancora non esiste.
Grazie per tutto
Laura Tonello, Padova
Cara Laura, spero che molti leggano le tue righe… Grazie a te e buon lavoro
due parole:
“io ci credo” e “grazie”!!!
Di fronte alla bellezza e all’intensità di queste parole che all’inizio di un nuovo anno scolastico, mai come ora, ogni insegnante è chiamato a “fare proprie” non mi rimane che una parola: GRAZIE DI CUORE ALESSANDRO!
Prof, leggendo le sue parole si è risvegliato in me quel senso di giustizia provocato da una brutta esperienza di quando frequentavo il liceo. La mia prof d’italiano mi umiliava davanti ai miei compagni minacciandomi, dicendomi “tu non ce la farai mai”, cercando in ogni modo di buttarmi giù. Io nel mio piccolo combattevo la mia guerra viaggiando con l’immaginazione sulle righe di romanzi, racconti, versi di poesie, viaggiando. A scuola stavo male e mi assentavo spesso. Però negli ultimi mesi di scuola è arrivato un angelo a salvarmi: La supplente d’inglese. Lei mi ha dato la forza di affrontare e superare la maturitá e grazie a lei ho scelto di frequentare la facoltá di lettere all’università. Lei è riuscita a salvarmi perchè mi ha presa per mano.
Per ogni insegnante che non merita di stare a scuola ce n’è uno che che ti salva… Per fortuna.
Grazie, mi sento confermato a proseguire in questo “stile”, l’unico modo che conosco e che reputo irrinunciabile per poter entrare in classe ogni giorno. Buon anno anche a te, prof. Alessandro… con l’augurio che anche tu riesca a tradurre ciò che scrivi in vita… vissuta!
Ci provo tutti i giorni, e se non ci provassi farei altro…
Ma traduction pour les lecteurs francophones ( traduzione per i lettori francofoni):
C’est la première cloche de l’année scolaire celle qui va sonner d’ici peu : l’énième promesse d’un nouveau début, retentissement du désir humain qui ne s’arrête jamais d’espérer qu’une vie renouvelée et davantage accomplie puisse surgir de cet horizon quotidien et répétitif.
Imagine, cher(e) collègue, de t’asseoir à la place d’un de tes élèves en ce premier jour d’école. Regarde-toi entrer en classe, observe-toi toi même : ton allure, les livres que tu amènes. Qu’est ce que tu vois ? Pourquoi es-tu là ? Pour qui tu es là? Pourquoi as-tu choisi chimie, italien, physique, droit…et pourquoi as-tu choisi de les raconter à une nouvelle génération ? Réponds à ces questions pendant que tu disposes sur le bureau les outils du métier. Maintenant écoute-toi faire l’appel. Comment est-ce que tu prononces les prénoms de tes élèves ? Comment est-ce que tu regardes leurs visages ? Et qu’est-ce que tu vois sur le tien ?
Peut-être tu perçois dans ton regard déception et fatigue, reflet d’un système qui ne valorise pas ta personnalité et ton professionnalisme…Mais souviens-toi que les jeunes serons le miroir de ce que reflètent tes yeux, parce que le regard humain n’est jamais neutre mais il porte précisément la vie qu’il veut donner ou enlever ; ainsi, par leurs regards, tu sauras toujours comment est le tien.
Ils désirent ce que tu désires : être reconnus, valorisés, soutenus. N’êtes vous pas faits de la même matière? Pourquoi n’en prendre pas soin comme tu voudrais qu’on fasse avec toi ? C’est justement parce qu’ils ne savent pas encore prendre leur vie en charge, qu’ils te demandent à toi, adulte, d’y essayer, pour pouvoir découvrir que devenir grands est une aventure et non pas une faute à expier. Etre adulte c’est cela : une fois la vie démarrée, arriver à en supporter la charge, comme un père qui soulève son enfant pour qu’il cueille les fruits sur les branches que lui même n’arrive pas à atteindre.
Si tu t’approches tu peux apercevoir sur leurs visages les signes de la solitude et de la peur : l’audace folle, les silences, les masques de cet âge trahissent le désir d’avoir un prénom, d’habiter la vie. Ne sont-t’ ils pas, peut-être, les signes de ta recherche aussi? Mais comment faire en sorte que l’espérance soit toujours un pas devant la peur ? Où puiser la patience et la générosité pour prendre soin de ces vies ? Une pensée te rassures: tu sais que la réponse à cette blessure, à la fragilité du moi par rapport à la plénitude à laquelle il aspire, demeure dans la culture et les relations authentiques. La culture généreusement partagée dans la relation éducative, la transmission du vrai, du beau, du bon, résistants au temps vorace, c’est vraiment ce qui permette de donner sens et poids à la vie, la réponse humaine au néant : « Où tend mon errance éphémère ? et moi qui suis-je ?» t’interrogent-ils avec les mots de Leopardi . Ils te demandent de « souffrir » pour eux, et ce verbe signifie à la fois « supporter le poids » de la vie et « donner » la vie : les concevoir et le générer. Ne les repousse pas dans le noir, laisse les venir à la lumière, à travers toi.
Mais est-ce qu’il y a cette lumière dans tes yeux ? Comment sera-t-il ton premier cours ? Comme dans les symphonies, le premier cours donne la tonalité dont dépend toute l’année : ta partition développera le thème jour après jour, et ce serons eux les instruments, tous nécessaires, de l’orchestre. Toi, maître, tu sais que la musique ne t’appartient pas, elle te précède, mais c’est toi qui l’interprètes, qui la déploies, qui lui donne forme, avec eux, ensemble. Sans eux tu agites la baguette dans le vide. Vous avez besoin les uns des autres, c’est seulement de cette façon que l’harmonie apparaitra. Je sais : c’est dur, les collègues sont parfois difficiles, le salaire une misère, les réunions longues, les paperasses trop nombreuses, les parents encombrants. Tu peux te tourner de l’autre coté et dire que ce ne sont pas tes affaires. Mais si, elles le sont. Ces jeunes c’est ton héritage.
J’étais à Gênes quand le pont s’est écroulé. Le silence qu’a enveloppé la ville était rompu uniquement par les sirènes des ambulances et le bruit des hélicoptères et, dans les pauses muettes, s’amassaient les « pourquoi » avec lesquels le cerveau cherche à arracher un sens aux catastrophes. Nous sommes tous arrivés à une conclusion, malheureusement bien trop fréquente dans notre Pays : il fallait y penser avant. Même l’école est un pont pour presque 9 millions de vies ; elle les conduit chaque jour les faisant passer d’un destin à une destinée, de l’informe à la forme pleinement humaine de la vie.
C’est précisément toi qui est appel(é)e à l’entretien ordinaire et extraordinaire du pont. Regarde-toi entrer avec ta boîte à outils : à ton professionnalisme sont confiées leurs vies. Comment aurais-tu voulu qu’on te regarde et qu’est-ce que tu aurais souhaité entendre ? Certainement pas ce que dit une enseignante fixant sa nouvelle classe le premier jour de la première année de lycée : « Vous êtes trop nombreux, nous allons vous réduire ». Le « Tu » naît seulement si le « Je » de l’adulte peut le concevoir et le générer ; ce faisant le « Je » ne faiblit pas, bien au contraire, il se renouvelle comme il arrive au corps de la mère qui attends un enfant. Enseigner est un des meilleurs remèdes au vieillissement que je connaisse.
Pendant l’été j’ai passé quelques jours avec ma sœur qui a une petite fille de quelques mois. C’était à qui devinait le premier ce dont elle avait besoin et celui de la famille qui rentrait en contact avec Béatrice était comme captivé par l’attraction gravitationnelle de l’attention, le « soin » qu’appelait son regard. Deviner ce dont une nouvelle vie a besoin, l’empathie, est vitale pour l’enfant et pour qui lui est proche : nous, les humains, nous ne nous occupons pas de nos petits parce que nous les aimons, mais nous les aimons parce que nous en prenons soin. C’est en prenant soin qu’on apprend à aimer et à connaître, et c’est ainsi que nous mûrissons aussi.
Enfants et adolescents se dévoilent s’ils trouvent des éducateurs capables de nourrir leur besoin vital d’avoir une forme : se former. Et ils le demandent à qui s’est déjà « formé » ; mais si celui-ci ne s’en préoccupe pas, leurs vies s’effondrent. L’enseignant, médiateur entre l’informe et les formes de vie qu’il raconte, en partant de la sienne, est appelé au soin, par profession. Je refuse la rhétorique qu’attribue à mon métier le terme de « mission » parce que ce serait réserver l’empathie, moyen professionnel nécessaire à la reconnaissance de la vie d’autrui comme la sienne, à la sphère des super-héros ou des mystiques. Avoir de l’empathie ce n’est pas se mettre à la place des élèves, mais connaître et faire face aux combats, aux contradictions, aux questions ; leur offrir des réponses adaptées si on les a ou une présence ajustée si on ne les a pas. Les jeunes veulent des vrais adultes : ni des espèces de potes nostalgiques de l’adolescence, ni des froids dispensateurs de notions.
La culture n’est pas une superstructure snob, mais la façon dont la vie humaine recherche son accomplissement. Informer ne suffit pas, il faut former : aider la vie à s’accomplir et à donner du fruit. Pour cela il faut de la générosité, mot qui a la même racine que le verbe générer. Soit la relation éducative est générative (elle accroît le désir naturel d’expérimenter), soit elle est dégénérative (elle étouffe le désir, ennuie, éteint le courage et la curiosité). La générosité éducative est une compétence professionnelle, non pas du bénévolat. Est généreux celui qui génère, en affirmant la vie de l’autre comme nécessaire et en s’engageant, comme il peut, pour sa réalisation, comme les piquets que ma grand-mère utilisait pour soutenir les petites plantes frêles afin qu’elles poussent vers la lumière enfonçant ainsi leurs sombres racines. Il n’y a pas d’accomplissement sans conception, il n’y pas de génération sans générosité. Et une génération qui n’est pas engendrée tôt ou tard elle s’effondre.
Il y a quelques jours m’a écrit une fille qui serait tombée dans le gouffre de la maladie si un enseignant n’avait pas été « empathique » et « généreuse », en l’approchant en face à face à la fin du cours. Elle m’a demandé de donner la parole à ces mots : « Je voudrais demander à tous les enseignants de s’arrêter, même un seul instant, de relever leurs regards du registre et regarder les jeunes dans les yeux. Ne vous cantonnez pas à noter l’absence, mais demandez vous vraiment si vos élèves sont là, demandez-leurs comment ils vont, en donnant du poids à leurs réponses parce que souvent, nous les jeunes, disons que tout va bien, alors qu’à l’intérieur nous sommes en train de mourir. Votre rôle n’est pas seulement de faire cours, interroger et noter. Vous êtes en position de voir plus loin que les parents : à l’école, précisément parce qu’on se sent invisibles, s’expriment le plus petites faiblesses. Avez-vous la moindre idée de combien de jeunes nagent à contrecourant sans jamais savoir quels sont leurs propres talents ? Combien d’entre eux se sentent inutiles ? Combien participent pour avoir la note comme s’ils étaient des objets ? Il m’arrive de penser à comment ça aurait tourné si ce jour-là ma professeure ne se fût pas arrêtée et ne m’eût pas regardée dans les yeux. Peut-être aujourd’hui je ne serais pas là ».
D’ordinaire il ne s’agit pas de cas extrêmes, mais de montrer qu’on se sent responsables de leurs vies, peut-être avec un simple et souriant « comment vas-tu ? » : parfois supporter le poids n’est pas plus que « donner du poids », tout simplement. Un adolescent décide de grandir s’il perçoit qu’un adulte veut se charger et prendre soin de sa vie, parce que c’est la seule façon pour qu’il découvre qu’elle est bonne ; et son courage s’active surmontant la peur s’il voit un autre s’engager pour lui. Ce qu’on attend d’eux doit d’abord être en nous : éduquer c’est cela et l’enseignement en est seulement une conséquence. A nous ils demandent de nous engager pour un visage et seulement après pour une note. Une année scolaire pendant laquelle je ne grandis pas en amour et en connaissance de la matière et des jeunes, pour moi est une année perdue.
Le lit à faire aujourd’hui, le premier de l’année scolaire, est l’entretien des âmes. De la même façon que nous, les enseignants, nous attendons à ce qu’ils nous écoutent, à notre tour nous pouvons « écouter » leurs visages, parce qu’écouter un adolescent signifie comprendre ce qu’il ne dit pas. De la même manière que les ponts, les âmes aussi peuvent s’effondrer par manque de soin. Regarde-toi. Qu’est ce que tu vois ? Regarde-les. Qu’est ce que tu vois ? Bonne année à tout le monde.
Grazie 😉