Dietro le quinte di Ogni storia è una storia d’amore
In questa storia di viaggi, Si parte con Ovidio, chi è per te? La storia del tuo viaggio con lui?
Ci sono in ogni età della vita dei libri “apriporta”, ti proiettano in un mondo secondario con tale potenza, seduzione, coerenza narrativa, che si ritorna al mondo primario con diversi gradi di prospettiva in più. Mi accadde all’inizio del mio percorso universitario con la lettura delle Metamorfosi di Ovidio, per l’esame di letteratura latina I. Mai obbligo di lettura fu più gradito. Mi resi conto di come gli antichi, anche se Ovidio ne raccoglie le reliquie, cercassero di dare fondamento alla realtà attraverso il racconto delle origini, il mito. Niente è originale se non è originario. La poesia di Ovidio è capace nel raccontare cose, animali, piante, uomini, dei, di far sentire l’eco verticale che vibra in ogni cosa. Un narciso non è un fiore, ma una storia drammatica, così come l’eco, un corallo, un albero di alloro… Questa domanda sul fondamento delle cose è primaria in ogni uomo, tutti cerchiamo ciò che dà consistenza e persistenza alla realtà. Ovidio compone un poema che contiene tutti i generi, cerca il fondamento nella metamorfosi che le cose hanno subito nel tempo fuori dal tempo, il tempo degli dei. La nostalgia dell’origine e la meraviglia dello spettacolo del mondo guida l’ispirazione ovidiana. Mi aveva colpito in modo particolare il mito di Orfeo ed Euridice, in cui apparentemente non si dà alcuna metamorfosi, proprio perché si dà la metamorfosi più importante di tutte, quella di una storia d’amore nei suoi protagonisti: si trasformano in amanti eterni affrontando la morte, almeno nella versione inventata da Ovidio che si discosta da quella di Virgilio nelle Georgiche, forzata da una visione ideologica che in quel poema Virgilio porta avanti e che rende la vicenda poeticamente meno bella. Inoltre un’altra sua opera è una delle fonti di questo libro, le Heroides, in cui dà voce alle donne innamorate e abbandonate dai grandi eroi del mito ai quali scrivono le loro lettere d’amore: Penelope a Ulisse, Briseide ad Achille… Insomma sento in alcune opere di Ovidio una voce affine.
Cos’è per te un classico? Tre classici per il nostro tempo?
Un classico è un pezzo di verità che si mostra come bellezza, cioè il modo in cui la verità si rende permeabile alla vita umana, anche se racconta qualcosa che può non piacerci. Come diceva Leopardi “un pezzo di vera poesia, in prosa o in versi, aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita”. Mi sembra una definizione perfetta di classico. Tre classici per ogni tempo: l’Odissea, la Divina Commedia, Delitto e Castigo. C’è tutto quello che non dobbiamo dimenticare su cosa significhi essere uomini.
Tra i tuoi classici, c’è la Vita Nuova di Dante, perché è stato così determinante per te?
Perché è l’anticamera della Commedia. Senza la Vita Nuova la Commedia è priva del prologo: Dante si trova faccia a faccia con Dio perché si è trovato faccia a faccia con Beatrice. È il cuore di una teologia esistenziale, che riscatta ogni evento della nostra vita come cammino di misericordia e di salvezza. Dante arriva a Dio attraverso i suoi amori umani.
La donna del libro che ti ha commosso di più e perché?
Direi Sylvia Plath che prepara la colazione per i figli e poi si toglie la vita mettendo la testa nel forno. Una donna devastata dal bipolarismo, acuito dal tradimento del marito. Aveva un talento selvaggio, che le fu esiziale. Ma quel gesto di preparare la colazione: una quotidianità che poteva essere illuminata dall’amore diventa il luogo della distruzione. L’amore come grande promessa non mantenuta. E poi Nadezda Mandelstam che in una specie di incarnazione del finale di Fahrenheit 451 impara le poesie del marito a memoria, e così ne salva non solo la carta ma anche la carne, sconfiggendo con l’amore quello che un regime fondato sulla menzogna aveva cercato di distruggere eliminando il marito Osip, che aveva scritto “l’amore muove Omero e muove il mare”, risolvendo in un verso la trama narrativa del mondo.
La più dolente?
La più dolente è quella di Camille Claudel, scultrice eccezionale, svuotata dal suo amante e ben più noto scultore Rodin, che cambiò il suo modo di scolpire proprio traendo da lei l’ispirazione per rendere la pietra carne e la carne pietra. La userà e poi la farà rinchiudere in manicomio, dove lei morirà sola e dimenticata, dopo aver distrutto parte delle proprie sculture, come se dovesse distruggere se stessa.
La più accesa?
Quella di Elizabeth Siddal, innamoratissima di Dante Gabriel Rossetti, che le dedicherà un libro di sonetti d’amore incendiari e che seppellirà tra i capelli rossi di lei, dopo averla portata al suicidio a causa dei tradimenti e incertezze nello sposarla. Salvo poi recuperare quel libro nella tomba quando aveva perso ispirazione e introiti economici.
La più materna?
Quella di Tess Gallagher che affiancò Raymond Carver negli anni del suo tumore, consentendogli di morire felice e di volere sulla lapide della sua tomba una delle sue ultime poesie nella quale diceva: “E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra.”
Questo è l’amore che vince la morte.
Come è cambiata la vita di Lewis dopo l’incontro con lei? Un parere sul film Viaggio in Inghilterra?
Lewis imparò ad amare con il cuore e non solo con la testa. Solo Joy gli permise questo, come una specie di Beatrice, proprio a motivo della su drammatica morte. Si rilegga Diario di un dolore, un libro straordinario nel quale Lewis pone, da Giobbe del XX secolo, le domande a un Dio che distrugge le cose belle e l’amore, e grazie a questa onestà trova il volto di Dio in Cristo crocifisso, ma non in teoria, ma realmente. In Viaggio in Inghilterra, pur bellissimo, manca proprio tutta questa scoperta, e tutto si ferma a un dolore senza riscatto, se non in una vaga fantasia sentimentale.
Chi è per te Foster Wallace? È così decisivo come raccontano? Antenna dei nostri giorni? È così anche Carver?
Foster Wallace ha scritto un romanzo mondo in Infinite Jest, che ha qualcosa di magnetico nel suo narrare senza sponde, a volte caotico, a volte sperimentale, a volte sconclusionato. Mette insieme i due demoni del passaggio di millennio, che poi erano i demoni dell’autore: la ricerca di perfezione senza Dio e la conseguente dipendenza dal mondo, che diventa una prigione. Infinite Jest è il divertimento infinito in cui ci andiamo a perdere da quando siamo orfani di un Padre che ci ha donato il Mondo come luogo per giocare con i suoi figli. Carver è necessario perché ha trasfigurato il quotidiano, facendo uscire la luce dalla penombra delle cose più ordinarie. La poesia nella prosa. Se avessimo occhi per vedere questo in ogni cosa che facciamo saremmo salvi: questo cercava Carver.
Qualche anticipazione sul lavoro teatrale che sgorgherà da questo libro.
Sarà un racconto teatrale basato su un focolare, con attorno persone, per lo più ragazzi, presi dal pubblico. Come accadeva un tempo, quando ci si trovare di sera ad ascoltare le storie che riparavano la stanchezza del giorno e davano un senso al mondo, rinsaldavano i legami con la magia della parola, a differenza del divertimento che isola la moltitudine. Si potrà scegliere tra le storie da ascoltare, come accadeva coi i racconti epici, e per me sarà una sfida trovare il filo che unirà le storie che dovrò raccontare.
Se avessi la bacchetta magica quale di queste storie avresti cambiato?
Nessuna, perché si perderebbe il motivo per cui l’ho scelta: mostrare che proprio nel dramma della storia si mostra la presenza di Dio nella vita umana e la frequente inadeguatezza dell’uomo ad accogliere questo amore. Ogni amore lavora in incognito per Dio, in positivo come desiderio di dare eternità a quell’amore, in negativo come desiderio di avere un amore che non distrugga.
Cosa sarebbe stato Hitchcock senza Alma?
Un uomo pieno di paure e di incertezza. La forza di Hitch veniva dalla stima che sua moglie aveva per lui, non faceva nulla senza l’approvazione di lei, che lo salvò dal fallimento di Psycho rendendolo un film epocale. Hitch le riconobbe di essere la persona a cui doveva di più nelle quattro versioni che Alma ricopriva: montatrice di film, sceneggiatrice, madre della loro figlia, cuoca superba.
Ci sono Nuove storie di donne/muse che hai incontrato e che non sono rientrate nel libro?
Ho eliminato le storie di Beatrice, Laura, Cinzia, amate rispettivamente da Dante, Petrarca e Properzio, perché la loro vicenda umana era troppo dipendente dalla trasfigurazione poetica e quindi mancava dramma alla narrazione. Ho tralasciato la storia di Elizabeth Bishop e Robert Lowell perché era meno calda della altre, dal momento che conosco poco le loro opere. Avrei voluto raccontare quella di Rilke e Salomè, ma non ho trovato il punto di vista adatto. Uno dei divertimenti narrativi più grandi di questo libro è stato proprio il cambiare i punti di vista.
Di questi personaggi qual è la storia di redenzione che ti ha colpito di più? Il “ritorno” di Dostoevskij?
Quella di Dostoevskij è la storia in cui emerge in modo più evidente che l’amore assoluto è intessuto di misericordia, e se si ha la fortuna di incontrarlo si viene guariti dalle bassezza più grandi. Anna Dostoevskij quando suo marito si inginocchiò per chiederle perdono dopo aver sperperato tutto al gioco d’azzardo, prese dalla tasca i suoi ultimi spiccioli e glieli diede perché giocasse anche quelli. Dostoevskij si sentì amato nel suo demone e così lo vinse. È proprio vero che niente spinge ad amare più del sapersi e sentirsi amati in ogni aspetto.
Questo libro è un lungo viaggio… Cosa pensi della narrativa di viaggio? Chi ti interessa?
Il libro si apre con una voce narrante che imita alcuni passi del prologo dell’Odissea, tutti i capitoli dedicati a donne sono una specie di evocazione dei morti come quella che fa Ulisse per conoscere il suo destino. Credo che la letteratura si occupi dall’Iliade e dall’Odissea in poi solo di viaggi di andata e di ritorno. Tutta la vita è un’esplorazione per la conquista di qualcosa e un ritorno a casa. Viaggio è quello di Agostino nelle Confessioni, di Dante nella Commedia, del padre e del bambino nella Strada di Cormack McCarthy. Se poi devo indicare un libro di viaggi in senso stretto direi L’ultimo parallelo di Tuena, che narra la tragica spedizione per la conquista dell’Antartide di Robert Scott.
Dicono che si scrive sempre per qualcosa che manca? Cosa ne pensi? Qualche aneddoto dagli artisti di questo libro?
È vero. Scriviamo di un paradiso perduto, diceva Baudelaire. O meglio scriviamo di un paradiso promesso, che ogni tanto si mostra in questa vita, ed è bellezza che non muore, che riscatta ogni fatica, asciuga ogni lacrima, ogni caduta, fallimento… Mi viene in mente la storia di Giulietta Masina e Federico Fellini, che fuggirono, malati, dai rispettivi ospedali, per festeggiare il loro anniversario di matrimonio. Lui morì il giorno dopo, felice, e lei disse che si erano messi d’accordo che lui avrebbe preparato tutta la scenografia e poi l’avrebbe chiamata. Così avvenne sei mesi dopo. Cosa c’entra questo con ciò che manca? Fellini alla domanda del perché si fosse innamorato di lei rispondeva: perché mi fa ridere. Gli mancava quel sorriso, lo inseguì per tutta la vita, in ogni suo film, forse lo aveva trovato proprio a quel tavolo dove festeggiarono di nascosto. Per questo potè andar via…
Hai attinto a molti epistolari, un genere fecondissimo eppure molto trascurato, i tuoi preferiti e perché?
Ho amato quello di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti perché contiene le lettere sia dell’uno sia dell’altra e si riesce a seguire la trama nascosta delle tappe amorose, il gioco di illusioni e delusioni. Altrettanto bello, anzi forse di più, è quello di Zelda e Scott Fitzgerald perché narra un’epoca intera attraverso quello scambio, un Titanic destinato a naufragare miseramente. Non dimenticherò mai quella frase di Zelda a Scott: “L’amore è crudele, ma è quel che c’è”.
L’amico pittore marco Vinicio quando incontra i ragazzi nelle scuole spiega loro che il gesto più rivoluzionario che possano fare è scrivere una lettera come ai vecchi tempi, lo consigli mai ai tuoi alunni?
Dedico una parte dell’apprendistato della scrittura dei miei ragazzi alla scrittura di lettere. Non è un caso che il mio libro precedente, L’arte di essere fragili, sia un epistolario immaginario intrattenuto con Giacomo Leopardi. Oggi è rivoluzionario esercitare la propria grafia, dove spirito e corpo lottano per trovare un’armonia. Un vero e proprio esercizio contemplativo e ascetico.
Scritture al femminile, le tue autrici preferite, al passato e al presente?
Sono poche le donne scrittrici che mi abbiano segnato, ma quando lo hanno fatto è stato per sempre. Bronte in Cime tempestose, Woolf nell’Orlando, Campo in Gli imperdonabili, O’Connor nei Racconti, Strout in Olive Kitteridge e le poesie della Plath.
Tra i ritratti più intensi quello di Rodin, chi è per te?
Un uomo capace di riprendere l’ultimo Michelangelo e continuarne la ricerca, creando uno spazio attorno alla scultura che è tanto importante quanto la scultura stessa. Amo la sua carnalità di pietra.
Le reazioni dei lettori che più ti hanno colpito dopo questo libro?
Chi mi dice che non aveva mai letto nulla che definisse meglio il genio femminile come nel prologo del libro. Per uno scrittore che deve fare esercizio di metamorfosi continua con i suoi personaggi è un complimento bellissimo, vuol dire essere riusciti ad amare i personaggi a tal punto che anche il lettore sente che la scrittura è frutto di amore e quindi di una metamorfosi reale prodotta dalla scrittura e che di conseguenza trabocca. Se non sono cambiato da ciò che scrivo, se non sono meravigliato da ciò che scrivo, non cambierò nessuno, non meraviglierò nessuno. Mi colpiscono i commenti di chi nel leggere ha ricevuto lo stesso amore che ho ricevuto io nello scrivere. E per me resta un mistero il luogo da cui tutto questo ha origine. Un punto zero che precede la vita interiore che ne è già un frutto. Un dono che è fatto per essere donato. Ma qui mi mancano le parole. Io provo, con le mie limitate risorse, ad essere all’altezza.
A.Rivali, Studi cattolici, dicembre 2017
Grazie Alessandro!
Ciao Alessandro, grazie per i tuoi bellissimi libri che mi “riempiono” l’anima. Li ho letti tutti e ognuno mi hanno dato tanto. Ti chiedo: perchè nella quarta di copertina il filo rosso arriva a un fiore? Avrà sicuramente un significato profondo che io non so cogliere. Mi piacerebbe, per favore, se potessi brevemente spiegarmi, grazie!
Perché, prima o poi, qualsiasi sia il viaggio tortuoso del filo, sempre comunque si spera di approdare all’Amore.
Escucharte y leer algo de lo que dices me ha “conmovido” como dices si la obra transforma al artista, tambien transforma al que la mira, la lee y no solo la consume. Soy sacerdote y me he gozado viendo tu testimonio diafamo, profundo, verdadero. Grazie mille! (espero seguir entrando en las puertas que abres. Sos un maestro, otro Daniel del AT!)