Il Grande Seduttore
Ci innamoriamo e amiamo solo per la bellezza. Nessuno di noi ha desiderato avvicinarsi e conoscere qualcosa o qualcuno senza esserne prima sedotto. Questo principio di attrazione ha il suo fondamento ultimo qui: “Nessuno viene a me se non lo attrae il Padre”. Tutte le volte che nell’ambito naturale (la grazia delle cose) o soprannaturale (la Grazia, dono di Dio a partecipare alla sua vita) la bellezza ci mette in movimento, sperimentiamo l’attrazione dell’Amore che ci trasforma, cioè vuole darci la sua forma, la sua essenza, per farsi tutto in tutti, pur mantenendo ciascuno la sua irripetibile identità. Questa attrazione che Agostino chiamava delectatio victrix (piacere che avvince), in Dante è il movimento “amoroso” che Dio imprime alla creazione: “La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove”, in cui “il più e il meno” non indica solo l’oggettiva scala di perfezione dell’essere delle creature, ma anche la loro risposta soggettiva. La gloria è lo stabile e progressivo manifestarsi e comunicarsi della bontà di Dio nel mondo e nella storia, si mostra come bellezza e si dà quasi senza ostacoli negli esseri privi di libertà (per questo a volte preferiamo cani gatti mari e boschi agli umani), mentre è più o meno o affatto rallentata dalla resistenza delle creature dotate di libertà (in questo senso il massimo del progresso è stato raggiunto una volta per tutte con Cristo).
Quando l’azione beatificante (capace di rendere felici), che attira cose e persone verso il loro pieno e duraturo compimento di bellezza, trova un ostacolo, questa gloria, non si irrigidisce, ma diventa anzi resiliente e prende il nome di misericordia e, lasciandosi ferire, diventa limite imposto al male della e nella storia. Quando l’ostacolo del male si erge contro la gloria di Dio, trionfo di bellezza a cui ogni cosa e persona è chiamata, l’azione “attraente” di Dio si piega in forma di misericordia (Cristo si china sulla donna che tutti volevano lapidare) sul cuore duro e cerca di sedurlo, a volte con forza a volte con delicatezza, verso un bene più grande e misterioso, nel tempo e nello spazio che si renderanno necessari. La misericordia accetta il rallentamento della gloria che si dispiegherebbe altrimenti al ritmo divino (“Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto!”), ma proprio questo inciampo fa emergere un volto della gloria spiazzante per i canoni umani: la misericordia (“Perdonali perché non sanno quello che fanno”). Che ne sarebbe dell’abbraccio del padre che si china sul figlio sporco, ordinando anello, vestiti e banchetto di festa, se il figlio non fosse andato via e tornato, dopo aver sperperato tutto?
La misericordia è una forma unica e ulteriore di bellezza, perché è la bellezza resa compatibile con il male, con la ferita, con la resistenza (forse solo Michelangelo è riuscito a scolpirla, quasi per errore, nella Pietà Rondanini). Si tratta di una bellezza che mostra le ferite (come accade con l’incredulo Tommaso) come credenziali di un’estetica nuova, in cui la vita ha attraversato e trasformato la morte, ma non per via immaginaria, perché ne porta i segni, producendo una meraviglia inedita rispetto a secoli di storia in cui il bello era soltanto armonia delle parti e il sangue doveva rimanere fuori dalla scena (“osceno” appunto). Per ricordarselo, basterebbe fissare per qualche minuto la Pietà di Avignone che Enguerrand Quarton dipinse a metà del 1400 (nell’immagine): “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti (o tutto) a me”, la massima attrazione, fascinazione, bellezza, si dispiega proprio al massimo della sconfitta, la massima seduzione provocata dalla nostra più pervicace resistenza.
Non a caso Ambrogio intuì che, non dopo aver creato le cose Dio si riposò, ma solo dopo aver fatto l’uomo perché aveva finalmente qualcuno da perdonare: Dio riposa quando può comunicare la sua essenza amorosa alla creatura ferita, riparandone la presunzione di autonomia. L’incontro tra la nostra volontà di autonomia e l’insistenza della seduzione divina è la drammatica estetica della misericordia, cioè della croce (“prendere” la croce “di ogni giorno” non è masochismo, ma “ricevere” quotidianamente la misericordia divina, proprio dove falliamo, dove la tristezza ci sorprende).
Tutte le volte che l’uomo si lancia a capofitto nella bellezza, in fondo ad essa cerca Dio, anche le volte in cui quella bellezza anelata è frutto del cuore curvato su se stesso che, investendo di assoluto quel poco che gli resta da amare, lo fa diventare un’illusione di Dio: proprio allora, quel cuore deluso e spaccato, può aprirsi al Dio misericordioso. L’ubriaco ama la sua bottiglia perché in essa cerca Dio, il sensuale ama il suo piacere perché in esso cerca Dio, l’avaro ama il suo denaro perché in esso cerca Dio. Ma Dio non è “in” ma “oltre” la bottiglia, il piacere, il denaro. Che Dio? Il Dio misericordioso che lo seduce proprio lì, nell’ultimo tentativo auto-inventato dall’uomo per essere tutt’uno con ciò che ama, salvo poi esserne fatalmente e dolorosamente respinto per insufficienza di eternità di quella briciola di bellezza. Forse proprio a quel capolinea abita Dio, per questo “pubblicani e prostitute” precedono chi si crede giusto, perché hanno toccato il fondo e oltre il fondo c’è il profondo, il sottosuolo teologico di Dostoevskij, cioè o la salvezza o la distruzione. C’è Dio, la cui regola è: “a chi molto viene perdonato, molto ama”. In un attimo, con un paradossale “colpo di grazia” che dà vita e non morte, la nostra disperazione può trasformarsi in salvezza, fosse anche per il solo desiderio di avere una “vita nuova”, come accadde a Dante, proprio mentre (in)seguiva Beatrice. Non c’è bellezza piena senza ferita, come non c’è misericordia senza giustizia: non è venuto per i sani ma per i malati, che si riconoscono tali. Se il malato riconosce la ferita e la mostra a Dio, perché sa che altrimenti non potrebbe guarirne, la misericordia immediatamente lo raggiunge, anche di soppiatto, come quella donna che sapeva che le sarebbe bastato toccare la veste di Cristo per esser sanata, tanto da costringerlo al miracolo senza neanche chiederlo a voce, in mezzo alla folla che lo pressa. Egli, quasi che la guarigione gli sia scappata, chiede: “Chi mi ha toccato?”. Toccare Dio con la propria ferita aperta è il segreto per sperimentarne la misericordia e vederne finalmente, senza più difese, la bellezza che tutto vince e avvince, bellezza antica e sempre nuova, che non è mai tardi per esserne sedotti, come accadde a un ladro e assassino, che ammise la sua colpa e si rivolse all’unico innocente della storia, e fu accolto in quel giorno stesso in Paradiso. Ciò accade ancora, in ogni confessione.
Avvenire, 15 febbraio 2015 – link all’articolo
Articolo completo, profondo, cristallino… leggerlo è un po’ come bere in montagna alla sorgente… le parole sono davvero uno strumento prezioso e tu le usi con tanta grazia per comunicare che non si può che essere grati a te e al Signore e -se mai ce ne fosse bisogno- incoraggiarti a continuare, continuare e continuare… grazie, sr. Cristiana
Grazie per questa lezione di teologia del quotidiano intrisa d’amore che ci hai regalato. In famiglia l’abbiamo riletta due volte ad alta voce e, credimi, dobbiamo ancora riprenderci: siamo pervasi come da un senso di piacevole e sconcertante vertigine. Forse perché, a causa delle troppe difese, non siamo abituati alle profondità dell’Amore o forse perché ci sono sempre meno uomini a parlarcene. Grazie. Davvero.
Grandioso!!
Non ci sono parole da aggiungere, bisognerebbe passare subito a musica e brindisi!!!
A proposito di “misericordia” e di “felicità in Dio” … Una mia riflessione sul Vangelo di oggi.
Mt 7,7-12: Chiunque chiede, riceve.
Questa mattina mi sono svegliata chiedendomi: «Chissà quale messaggio mi regalerà il Vangelo di oggi per il compleanno?». Mi trovo questo «Chiedete e vi sarà dato»: non poteva capitarmi un brano più azzeccato! È come se anche Dio, al pari di tanti altri, mi domandasse: «Carissima Silvia, che regalo vuoi per il tuo compleanno?». Che gesto di delicatezza, di misericordia! Lui che, tra migliaia di cose da fare e a cui pensare, trova il tempo, l’attenzione per chiedermi: «Che regalo vuoi?»
«Che regalo vuoi?» è una domanda che mi ha sempre messo in crisi, fin da bambina. Se me lo chiede Lui … so che potrei puntare molto in alto, avanzare richieste esagerate, spropositate: in fondo, lui è Dio, Lui può tutto; chissà che non mi prenda sul serio e non realizzi qualcuno dei miei sogni nel cassetto, qualche richiesta impossibile? Ma tra tante cose materiali, concrete, contingenti che potrei chiedergli, tra tanti sogni nel cassetto (c’è l’imminente concorso che incombe e che devo passare a tutti i costi se voglio entrare di ruolo nella scuola; c’è il discorso ancora in sospeso su figli, maternità ecc. – ma quello è più un desiderio mio o di mio marito? a che punto sono di questo cammino? un po’ arenata? -; c’è che mi piacerebbe diventare una scrittrice e riuscire prima o poi a pubblicare qualcosa …), lì per lì, a bruciapelo, la risposta che mi viene in mente è una sola: FELICITA’!
Una richiesta tanto generica quanto concreta, realistica. So, infatti, che la felicità può declinarsi in mille forme, assumere le più svariate sfaccettature, camuffarsi sotto mentite spoglie (un po’ come Ulisse quando ritorna ad Itaca nei panni di un mendicante), nascondersi nelle circostanze più semplici, indossare gli abiti della quotidianità; talvolta nascondersi, mescolarsi persino dentro alle lacrime, alla nostalgia, al dolore. So che la felicità può presentarsi quando meno me lo aspetto: pararsi davanti, piombarmi addosso, attraversarmi la strada, sfilarmi a fianco, a prescindere dal fatto che io sia attenta o meno, che la veda o meno, che sia pronta o no ad accoglierla (e allora, in tal caso, se me la lascio sfuggire, se non sono abbastanza pronta, tanto peggio per me, sono io a rimetterci). So che sta a me cercarla, aspettarla, riconoscerla, raccoglierla non solo nel passato, nelle circostanze belle già vissute; non solo nel futuro, a determinate condizioni; ma nel presente, nel qui ed ora.
È una richiesta esagerata, forse, eppure modesta: in fondo, non chiedo niente più di quanto sto già ricevendo; perché – è un dato di fatto – sto già ricevendo sin d’ora, giorno dopo giorno, occasioni di sorriso, di letizia, di serenità, di felicità.
E so infine – intuisco vagamente eppure so, al contempo, con certezza – che la felicità, ogni felicità è un segno, un riflesso di Dio, della presenza di Dio nella mia vita: perché Lui ne è l’origine, la fonte, ma anche l’anima; e ogni felicità sarebbe parziale, incompleta, non decifrata correttamente se non rimandasse a Lui, se non mi facesse intuire il suo volto.
Nel giorno del mio compleanno, dunque, Gesù non poteva consegnarmi messaggio più bello, più dolce, attraverso il Vangelo del giorno: mi consegna infatti (o meglio, mi riconsegna, mi conferma per l’ennesima volta) la certezza che Lui c’è e che è il “respiro” buono, la prospettiva positiva, la pienezza in ogni giorno della mia vita.
un appunto: la Misericordia non è compatibile col male. niente lo è: il male è male. La Misericordia ha l’effetto di bruciare, purificare come il fuoco, è l’unica Bellezza che non può essere intaccata dal male.
Grazie Prof! Hai mai pensato di farne un saggio? Ho letto questo articolo con molto piacere…e penso che lo leggerò ancora per riuscire a coglierne tutta l’essenza. Se ci fossero più prof come te nella scuola probabilmente ci sarebbero meno ragazzi che abbandonano e si appassionerebbero allo studio. Un abbraccio