Natale a Brancaccio… e un po’ dovunque
Alla fine delle Città Invisibili di Calvino il Kublai Khan si confida malinconico con Marco Polo: le città degli uomini sono destinate all’inferno, a causa della violenza degli uomini e della decadenza delle cose umane. Le costruirono per strappare alla natura il suo dominio e si ritrovarono dominati da se stessi, in un infernale al di qua urbano. Marco Polo, viaggiatore e mercante, le ha viste quelle città e potrebbe dar ragione al Khan, ma egli è anche scrittore e quindi non può fare a meno di sperare, perché sa che l’uomo è capace di aprire spazi sacri in mezzo all’inferno, elevarsi sulla natura e costruire una storia non infernale. Così gli confida la sua filosofia della storia o etica politica: ci sono due modi di affrontare l’inferno, uno è farne talmente parte da non vederlo più, l’altro richiede fatica e apprendimento continui, e consiste nello scorgere chi e cosa nell’inferno non è inferno farlo durare e dargli spazio. A partire da questa pagina e dalla storia che volevo raccontare, ho deciso di intitolare il mio recente romanzo Ciò che inferno non è, che sta suscitando tante reazioni coerenti con la proposta di Marco Polo: teatri pieni di persone, soprattutto ragazzi in orario non scolastico con un carico di inferno da corrodere a colpi di speranze non illusorie. Ricevo lettere di tanti che decidono, nel loro piccolo, di ampliare il raggio d’azione di ciò che inferno non è nella e con la loro vita, lasciandosi complicare testa, cuore e mani da questa speranza. In questo romanzo ciò che inferno non è è l’azione di un uomo ucciso dalla mafia, costretto a morire pur di “far durare e dare spazio” a ciò che non è infernale nel quartiere di una città come Palermo nel 1993. Cosa è cambiato da allora a Brancaccio mi chiedono in molti, per sapere se val la pena cambiare le cose partendo da se stessi, se gli effetti sono duraturi, se non si tratta dell’ennesima illusione. Non è cambiato niente ed è cambiato tutto. L’inferno e ciò che non lo è continuano a mescolarsi e moltiplicarsi senza soluzione di continuità. Qualche settimana fa hanno arrestato 18 mafiosi in quel quartiere, eredi dei Graviano, che controllavano il mandamento nel 1993 e decisero di eliminare don Puglisi (il vero “don” del quartiere, che al controllo sostituiva la libertà). Sono tornato a Brancaccio a vedere se l’unica notizia da dare era quella dei 18 arrestati. E non era l’unica, ci sono altri numeri da citare: non fanno cronaca e rumore come gli altri. Si tratta dei volontari (una dozzina di ragazzi dai 15 ai 30 anni) del centro Padre Nostro e del lavoro di don Maurizio, eredi di ciò che don Pino aveva cominciato. Ragazzi delle superiori e universitari, che mettono in circolo i talenti propri e di chi ha qualcosa da dare anche di piccolissimo, per far crescere i ragazzini del quartiere (e in particolare quelli della zona più difficile, i cosiddetti Stati Uniti) a “testa alta” come voleva Puglisi, perché la loro dignità non fosse un lusso concesso da altri uomini, ma un dato di partenza. Recentemente questi ragazzi hanno organizzano per i bambini il cinema all’aperto nel cortile del centro, con tanto di biglietto e popcorn: “Diventano bambini in pochi secondi, eppure un attimo prima sulla strada si comportavano da adulti abituati ad un codice imparato proprio in strada”. Ho visto il volto stanco e sorridente di quei volontari e di quel sacerdote. Continuano quel sorriso indomabile anche se segnato dalla fatica, che ho conosciuto nei corridoi del mio liceo a Palermo, in quegli anni in cui don Pino insegnava a scuola, e portava i ragazzi del liceo a dare una mano al suo lavoro a Brancaccio. Ma poi non tornò più a scuola perché, in quel quartiere, gli avevano sparato.
Che Natale sarà a Brancaccio? Il natale come lo racconta Caravaggio in un famoso quadro (nella foto) che un tempo era a Palermo: una Natività con santi e pastori di cui ci resta solo qualche foto. Perché? La risposta è il simbolo di Palermo e di ogni città di questo nostro benedetto Paese dalla bellezza sfregiata da organizzazioni mafiose, che ormai permeano il quotidiano vivere senza essere fatte soltanto da criminali efferati, ma da un impasto inestricabile e infernale di società civile, politica, economia. Quel quadro, nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969, sotto uno sferzante temporale, fu trafugato dalla chiesa in cui si trovava. Chi lo aveva rubato? Mafiosi che, non potendo rivenderlo, lo appendevano, in una specie di farsa tragica (il Dio-bambino, fragile e impotente in una stalla), nelle grandi riunioni della cupola, come simbolo di potere. Ad un certo punto però, di questo quadro si persero le tracce. Fu trovato da alcuni mafiosi, ormai distrutto, roso da maiali e topi, proprio in una stalla, e per questo fu bruciato. Infernale suicidio della bellezza. Come lo sappiamo? Lo ha rivelato Gaspare Spatuzza, uno dei due assassini a cui Padre Puglisi sorrise quando gli spararono e che, insieme all’altro assassino, Salvatore Grigoli, a causa di quel sorriso, ha cambiato vita. Glielo aveva confidato proprio Graviano, confinato al carcere di rigore. Sembra anzi che il quadro fosse oggetto di riscatto proprio nella trattativa Stato mafia sul 41 bis.
Troppe linee si intrecciano: arte, bellezza, politica, criminalità, gente comune. Come nei quadri di Caravaggio in cui un fascio di luce, la cui provenienza rimane sempre misteriosa, investe la storia dell’uomo: alcuni li risveglia dalla loro tenebra, altri ci restano nella tenebra. Dipende da come ciascuno si relaziona a quella luce imprevista e improvvisa. La luce squarcia l’inferno e illumina ciò che inferno non è. Sta a ciascuno scegliere se farla durare e dargli spazio, come fece Puglisi 21 anni fa, fino a morirne. Come stanno facendo quei volontari a San Gaetano e al centro Padre Nostro: per il giorno di Natale hanno raccolto i regali da persone di tutta la città, così da poterne dare uno a ciascun bambino girando per le case il 25 mattina presto. Stanno cercando una psicologa che li possa affiancare, gratuitamente, per alcuni interventi più specifici nell’ambito del recupero scolastico che offrono ai bambini: chiedono a chi può di dare qualcosa, ciascuno nella sua professione, a volte solo un po’ di tempo. Ricordo quando nel centro c’erano a terra dei pacchi di mattonelle: “ce le ha regalate una ditta, prima o poi serviranno. Come quella volta che avevamo bisogno di una lavatrice industriale e puntualmente è arrivata una signora a regalarcela, senza sapere che avevamo bisogno proprio di quel tipo”. Tutto questo in un quartiere in cui di gratuito non c’è nulla: “Un ragazzino di sette anni che partecipava alla Messa domenicale si è presentato a ricevere l’Eucarestia e ha detto che gliela dovevano dare, perché aveva messo i soldi nel cestino delle offerte”.
Ciò che inferno non è creare una socialità basata sul dono che ciascuno può fare, più o meno piccolo che sia, nel loro lavoro quotidiano onesto e portato a termine con cura. La criminalità non è soltanto armata, è quotidiana. Ed è ogni diminuzione, distruzione, sottrazione di luce, di pulizia, di servizio agli altri con il proprio lavoro. Questo è l’inferno che attraversa in queste settimane Roma e ogni altra città in cui ancora la luce non ha evidenziato le tenebre. Ma quella luce c’è. Io a Brancaccio l’ho vista “esplodere” nel 1993, la trovo moltiplicata nel 2014. Si sono moltiplicate anche le tenebre, è vero, ma il loro spazio di azione adesso è più limitato e più si scontra con questa luce più emerge il suo limite di tenebra. Questa Italia ha bisogno di una decina di Puglisi e di centinaia di cittadini che ne raccolgano il testimone come gli abitanti di Brancaccio, perché parlare di quel quartiere è parlare di ogni quartiere, di ogni cuore, di questo Paese abbandonato ad una china infernale e riscattato da pazienti, ordinari, silenziosi moltiplicatori di luce e acceleratori di bellezza.
Se c’è stato un uomo capace di sperare in un quartiere in cui i ragazzi inneggiavano “abbiamo vinto” alla morte di Falcone, nessuno di noi ha un alibi per essere cinico e disperato nel Paese di adesso. Niente è mai stato come Brancaccio nel 1993. Adesso ci sono la scuola che don Pino anelava per i bambini delle medie (era lui a spingere la società civile a chiedere ciò che le spettava e a volte la società civile dorme, consentendo all’inferno di farsi largo); sono stati bonificati gli scantinati di cui chiedeva l’uso per i ragazzi e in cui avvenivano spaccio, prostituzione, guerre tra cani e in cui sostò il tritolo per Borsellino; c’è il centro Padre Nostro ed è pieno di volontari. Ho scritto questo libro perché stavo perdendo la speranza, la memoria corta è la causa della disperazione. La memoria di chi faceva bene il suo mestiere, da prete, da insegnante, da magistrato, è far durare e dare spazio a ciò che inferno non è. E chiunque questo lo può fare, senza essere un eroe da mettere su un piedistallo che lo rende inservibile nell’agire quotidiano, come quella signora che in un giorno di pioggia ho visto chinarsi su una mendicante prostrata a terra e dirle, dandole tre mandarini: “Questi non li dia ai cattivi, li mangi lei”. Dipende tutto da cosa ci facciamo con gli occhi per strada, se guardiamo solo il nostro schermo o se “a testa alta” ci prendiamo la responsabilità di ciò che ci circonda. La scelta è sempre tra ampliare, come questa signora, o diminuire, come quell’insegnante che entrò in classe il primo giorno di scuola e trovandosi davanti 30 ragazzi, senza neanche averli mai visti, disse: “Siete troppi vi diminuiremo”.
E questi teatri pieni, proprio di quei ragazzi in giro per tutta Italia, assetati di essere sfidati, ampliati, affamati non di oggetti ma di progetti, mi confermano che ne vale la pena: disperarsi è solo un alibi per non darsi una mossa. Quando ho chiesto alla volontaria che coordina gli altri quale fosse stato per lei il cambiamento più grande in un bambino mi ha risposto: “quando ha detto grazie per la prima volta”. Un grazie è l’altra faccia della medaglia di un dono, di un di più, di un gratis. Chi impara a dire grazie, forse un giorno non diminuirà il mondo, ma cercherà di ampliarlo. Questo è ciò che inferno non è.
La Stampa, 21 dicembre 2014
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In questo video l’intervista di Rai Radio3 FAHRENHEIT – Libro del giorno del 17/12/2014 – intervista di Loredana Lipperini
“L’angelo di Reims” (di Olga Sedakova)
“Sei pronto? / l’angelo sorride / lo chiedo, anche se so / che certo tu sei pronto / (…) ma tuttavia / in questa rosea pietra sgretolata / levando il braccio / scheggiato dalla guerra mondiale / consentimi tuttavia di ricordarti: / sei pronto? / Alla peste, alla fame, all’ira che si abbatte su di noi? / Certo, è tutto importante, ma non è di questo che voglio parlarti / Non è questo che ho il dovere di rammentarti. / Non per questo sono stato inviato. / Io ti dico: / tu / sei pronto / a una felicità incredibile?”.
Grazie, e buon Natale, Alessandro!
Ciao Alessandro,
Grazie per questo tuo dono alle soglie delle sante feste.
Io sono sicura che la luce ci sia, ma penso anche che ci siano ancora troppe tenebre e fino a che la gente nel quotidiano abbandona il prossimo nelle piccole-grandi cose, ogni giorno, quelle luci non riusciranno a esplodere fra le ombre. Questo paese, bello e frastagliato, porto di ogni cosa e persona, non si prende abbastanza cura del suo popolo che anzi sembra quasi non contare niente. Solo una constatazione.
Detto questo..la speranza e la luce devono esserci sempre, nessuno deve farsela rubare, come dici tu, come dice Papa Francesco, come ha detto Giovanni Falcone dicendo che la mafia è un fattore umano e come è nata un giorno finirà, come ha concretamente agito Padre Puglisi per Brancaccio e suoi figli, come fanno quei volontari per i bambini. Vorrei poterla vedere esplodere presto, questa luce.. ovunque.
I miei occhi sono luminosi e guardano in alto…”dopotutto domani è un altro giorno” (cit).
Grazie per questo tuo dono e per il romanzo che hai scritto, che resterà nel tempo.
Tanti auguri di Buon Natale e Felice Anno 2015.
Ciao..Adua
Grazie Alessandro, come tante altre volte, sei un antidoto contro la solitudine e scintilla a mantenere accesa la passione anche là dove inferno non è! Buone feste a tutta la tua meravigliosa famiglia Clara Schilirò
Mentre leggevo questo scritto, un amico postava su facebook una preghiera di Tagore.
Ne faccio dono a te e a quanti, ogni giorno, fanno la loro parte per ampliare il mondo, e nel mondo ciò che inferno non è.
Dammi il supremo coraggio dell’Amore,
questa è la mia preghiera,
coraggio di parlare,
di agire, di soffrire,
di lasciare tutte le cose,
o di essere lasciato solo.
Temperami con incarichi rischiosi,
onorami con il dolore,
e aiutami ad alzarmi ogni volta che cadrò.
Dammi la suprema certezza nell’amore,
e dell’Amore,
questa è la mia preghiera,
la certezza che appartiene alla vita nella morte,
alla vittoria nella sconfitta,
alla potenza nascosta nella più fragile bellezza,
a quella dignità nel dolore,
che accetta l’offesa,
ma disdegna di ripagarla con l’offesa.
Dammi la forza di amare sempre
e ad ogni costo.
Rabindranath Tagore
Degno successore dei precedenti dallo stile fluido che concretizza con fedeltà, la massima esaltazione di ogni singola parola,crea immagini vivide e capaci di commuovere.
Ho amato questo libro, dalla prima all’ ultima pagina, perché parla del valore e della consapevolezza di ciò che siamo e che ci circonda; della possibilità di vivere pienamente un’ esistenza, dove la lotta con l’inferno, è combattuta dai rapporti con le persone, alle quali vogliamo bene e a cui si deve dare spazio. Ho imparato che camminare a testa alta significa prendersi la responsabilità di quello che ci circonda Come posso non consigliarlo a tutti i miei amici ?
Grazie, Pietro, e auguri!
Come sempre, bella e non casuale la scelta delle parole.
Ampliare: dilatare, rendere più vasta, accrescere in maniera circolare la luce intorno a noi per ricacciare le tenebre là sotto, nel luogo a loro deputato.
Quell’inferno, appunto, a cui questo mondo in realtà non appartiene perchè, per quanto malandato, è stato comunque giudicato degno di essere illuminato da luce e salvezza.
No davvero, noi non siamo fatti di infimità e di tenebre; per quanto immersi nell’inferno, sopravvive in noi l’eco di una bellezza antica e perduta.
Ci sono alcuni uomini in grado di ravvivare questa scintilla e tramutarla in luce, perchè “capaci di aprire spazi sacri in mezzo all’inferno”.
Tutti noi invece possiamo, nel solco di quegli esempi, diventare “silenziosi moltiplicatori di luce e acceleratori di bellezza.”
In fondo per alimentare la memoria e non perdere la speranza, abbiamo già tutto ciò che ci serve a portata di mano, nelle nostre case, sotto i nostri occhi: una ragazza e la grandezza del suo umile Sì, un bravo falegname buono ed onesto, qualche pastore a cui il freddo non ha reso insensibile il cuore e una mangiatoia come culla che, grazie al cielo, anche quest’anno non rimarrà vuota.
Buon Natale.
La frase “Chi impara a dire grazie, forse un giorno non diminuirà il mondo, ma cercherà di ampliarlo.” è stupenda!
Vien voglia di fare un cartellone e porlo in bella mostra nelle mie classi a scuola!
Come maestro elementare mi impegnerò a far dire più spesso, ai “miei” bambini, la parola “GRAZIE”!
Caro Alessandro, sono un seminarista della tua diocesi di origine, Palermo, e ho partecipato a quel bellissimo incontro tenuto da te l’anno scorso nel nostro seminario. Sono originario della stessa parrocchia da cui nacque la vocazione di don Pino e ho prestato per due anni servizio a S Gaetano, un’esperienza unica e che mi ha arricchito enormemente: stare a fianco di quei bambini capaci di un affetto straordinario, divino, nonostante i loro sguardi corrucciati fra calci, pugni e abbracci. Adesso sono al quinto anno e se il Signore vorrà l’anno prossimo potrò coronare il mio sogno di consacrare a Lui tutta la mia esistenza, col desiderio di donarmi totalmente per Suo Amore a tutti coloro che incontrerò lungo il mio cammino. Ti ringrazio di cuore perché in un momento difficile del mio percorso vocazionale la lettura del tuo libro su don Pino ha risvegliato nel mio cuore questa passione ardente che temevo di aver perduto a causa delle eccessive ore chiuso in seminario (nonostante il mio desiderio di uscire fuori e darmi da fare. Obbedienza: croce e delizia per noi!) non solo passione per il mio (futuro) sacerdozio ma passione per la mia gente, per questo popolo di Palermo dal cuore smisurato e dalle spalle curvate dalle fatiche del quotidiano, per questa mia città che porta in sé uno degli attributi di Dio, quello di essere “tutto porto” (come hai più volte scritto nel tuo romanzo), per quei grandi uomini e sacerdoti che mi hanno preceduto (come don Pino, come il beato Giacomo Cusmano, straordinario sacerdote) e di fronte i quali tremo chiedendomi se sarò mai degno di salire sull’altare di questa nostra città come hanno fatto loro per offrire il medesimo sacrificio di Cristo, nostro Signore. Grazie di tutto Alessandro, grazie per la passione contagiosa che metti nei tuoi scritti. Ti chiedo una carità: prega per me e per il mio cammino verso il sacerdozio. Un abbraccio da palermitano a palermitano!
Puoi contare su di me, caro Nino. Come io conto su di te. Grazie e buon anno!
Ciao Alessandro!
Ho finito oggi di leggere il tuo libro “ció che inferno non è” . L’ho letto in pochi giorni, durante un viaggio lunghissimo nel quale son rimasta incollata al sedile con il tuo libro davanti agli occhi!. Appena l’ho finito ho pensato che dovevo assolutamente ringraziarti! Perchè mi ha dato tanto. Ha scavato in profondità e mi ha interrogata sul senso della vita, dell’Amore
, quello con la A maiuscola, quello che ti apre il cuore, quello che proviene dall’alto.
Grazie Alessandro perchè sei riuscito in un solo romanzo a raccontare il bene ma anche il male, sei riuscito a farmi inorridire e intenerire insieme. Hai reso quiesto viaggio su di un intercity diroccato uno dei viaggi più coinvolgenti e impetuosi della mia vita!
Benedetta
Felice di averti accompagnato, Benedetta.
Grazie. È un piacere leggere le tue parole così vere che non ci si può distrarre.grazie a te a brancaccio ci sono stata.
e sono più ricca.e un poco di straordinario si è aggiunto alla mia vita.anche un po’ più di blu .
Buona sera,
sono Monica Aldrighetti di San Donato Milanese, la ragazza della quale un po’ di giorni fa le ha parlato Paolo Ponte.
L’ho conosciuta quando ho letto “Bianca come il latte, rossa come il sangue” e poi l’ho anche incontrata alla Mondadori dove mi ha autografato i suoi tre libri che mi sono piaciuti tutti e tre tantissimo.
Ho tredici anni e infatti quest’anno affronterò gli esami di Stato. In particolare ho idea di intitolare il mio approfondimento per la parte orale dell’esame: “Io, D’Avenia e l’insegnamento”. Vorrei parlare dell’insegnamento per capire a cosa veramente serva. Così ho pensato che lei potrebbe essermi d’aiuto grazie alla sua esperienza personale. Io, poi, ho sempre avuto una forte passione per i bambini, ma soprattutto sogno di essere maestra delle elementari.
Ora le pongo tre domande che ho pensato e che saranno, con le risposte, la parte principale della mia tesina. Se lei poi dovesse avere qualche consiglio per il mio approfondimento lo prendo molto volentieri.
1) Da sempre ho avuto una forte passione per l’insegnamento. Mi stupisce la mente umana e in particolare quella dei bambini. L’anno prossimo affronterò una nuova tappa della mia vita, il liceo. Sono iscritta a quello delle Scienze Umane di via Bonvesin Della Riva a Milano che tocca proprio gli aspetti umanistici come la pedagogia, la psicologia e la sociologia.
Qualcuno la chiama vocazione, qualcuno destino, io: sogno. Voglio farcela, voglio diventare maestra con la migliore preparazione possibile.
Ora desidero chiederle cosa l’abbia affascinata e attirata nel momento in cui ha scelto di iniziare a fare il mestiere dell’insegnante.
2) Nei suoi libri, in particolare nell’ultimo, sono presenti varie figure di bambini che mi colpiscono tanto. Nel mondo quante volte si sente dire: “Lo direbbe anche un bambino” o “Ecco la voce della verità”. Ma anche in Cose che Nessuno Sa, nonna Teresa dice: “Si vu’ sapiri a verità, dumannala ai picciriddi” o addirittura Gesù disse: “Se non ritornerete come bambini non entrerete nel regno dei Cieli.” Anche lei stima il modo di fare e di pensare dei bambini o dei ragazzi con cui ha a che fare tutti i giorni? Per quale motivo?
3) In questo periodo ho sentito parlare di un sito organizzato dal governo sul quale chiunque può scrivere un consiglio per migliorare la Scuola. Lei cosa cambierebbe per La Buona Scuola? Qual è la principale novità che apporterebbe?
Cordiali saluti,
Monica Aldrighetti.
(La prego di rispondermi perché non so più come contattarla e per me la sua risposta è molto importante. Grazie mille)
Ti rispondo via mail. A presto