Il mistero dietro il mito di Sic
Per sentire il polso di una civiltà bisogna tastare come affronta la morte e prova a redimersene.
I Greci antichi provarono a spezzare il pungiglione alla morte trasformando la vita di un uomo in ricordo: la sua tomba o il suo essere narrato.
Aristocraticamente la morte era sopportabile e vinta solo per pochi eletti, quelli capaci di morire eroicamente e meritarsi una pietra più dura della pietrificazione della morte. L’alternativa era entrare nell’oblio assoluto. Non essendoci nulla di buono dopo la morte, l’unica forma di vita-dopo-morte era essere posti a fondamento della società, diventandone mito. Ma lo stesso Achille morto si dichiarerà sconfitto nel faccia a faccia con Ulisse in visita nell’aldilà: preferirebbe essere l’ultimo dei servi da vivo che il primo nel regno delle ombre. Lui che nel poema della consacrazione eroica, aveva scelto in dono dagli dei una vita breve ma gloriosa, piuttosto che lunga ma nascosta. Anche il mito vacilla sul ponte che unisce aldiqua e aldilà. Iliade e Odissea sono costruite sul ricordo di pochi grandi, che però sottovoce ammettono il fallimento, almeno per il morto stesso, di quella soluzione nobile e aristocratica.
Poi la morte diventò più democratica col cristianesimo. Il pungiglione non veniva spezzato solo per pochi, ma per tutti quelli che volevano. Non era questione di essere eroi agli occhi della società, ma agli occhi di Dio, che scruta il cuore dell’uomo. Non era più necessario conquistare Troia e magari morirne, per diventare eroe. Lo era anche chi rimaneva a casa. Il quotidiano venne improvvisamente illuminato in ogni suo angolo, perché la morte non aveva l’ultima parola, e il gesto eterno non era più solo quello eroico e coraggioso, ma quello fatto con amore, spesso eroico e coraggioso, proprio perché quotidiano come la carne di un Dio che sembra vivere e morire come vivono e muoiono gli uomini, ma poi torna dalle tenebre della morte, a dire, ribaltando Achille, che l’ultimo dei servi di qua è il primo dall’altra parte.
E oggi cosa accade nella nostra cultura post-moderna?
Ad un anno dalla morte di Simoncelli ricordo ancora il silenzio dei miei ragazzi il giorno dopo l’accaduto. Parlavano a bassa voce come in un luogo sacro, eppure era la stessa grigia classe di sempre. Era il silenzio di chi parla di una morte senza senso, perché la sua direzione, il suo traguardo, si era spezzato proprio sulla strada che ne doveva essere il compimento. Una promessa interrotta sul campo di battaglia. Un destino tradito. E che cosa teme un ragazzo più di questo?
Eppure, paradossalmente, la morte di Simoncelli non ha paralizzato, ma ha dato vita a moltissimi, suonando senza sosta la campana, perché ogni vivo non è un’isola, ma il pezzo di un continente. Lo dimostra la sua foto usata da molti ragazzi al posto della loro sul proprio profilo nei social network, punta dell’iceberg di molte altre iniziative.
Ha qualcosa degli antichi Greci questo ricordo rituale e virtuale che prova a strappare alla morte un giovane, scomparso quando ancora era una promessa. Ha qualcosa di antico questo «cuore collettivo» che la rete ha creato. Non a caso la nostra epoca viene definita di «oralità secondaria», un ritorno alla società orale di Omero, in cui il racconto occupava la coscienza individuale creandone una collettiva, in una sorta di metafisica fantastica, sopravvissuta nei bambini che ascoltano le favole. La nostra oralità non è però verbale, ma digitale, fatta com’è di immagini digitali. Quelle della morte di Simoncelli in diretta, quelle di lui sorridente con le braccia aperte e la chioma al vento come il Centauro di un mito post-moderno.
Qualcosa dentro la rete, qualcosa dentro questo «cuore collettivo e digitale» non vuole lasciare andare Simoncelli, come facevano gli antichi con la loro poesia eroica e le loro tombe. E quella memoria, ieri come oggi, faceva da collante e da paradigma sociale: ieri di un eroismo aristocratico da imitare, oggi di qualcosa di diverso. Di che cosa mi chiedo.
Forse della paura che la vita sia una promessa che si interrompe, un’illusione che la morte spazzerà via quando meno te lo aspetti, anzi forse proprio perché non te l’aspetti. L’emozione collettiva crea un talismano per allontanare, almeno allontanare, il pungiglione della morte. La memoria sociale testimonia il desiderio di eternità e la ribellione contro una vita dal copione tragico. In un ritorno aristocratico, il caso unico o raro di pochi aggrega una società senza verità condivise, che alla ripetizione rituale e virtuale del ricordo si abbarbica. La morte ordinaria, silenziosa e democratica, quella del vicino di casa, l’abbiamo rimossa, nascosta, obliata. Per questo, soprattutto i giovani, non possono fare a meno di creare memoria e senso, cioè un codice culturale, attorno a una morte «eccezionale», che poi di eccezionale – a rifletterci – non ha nulla, se non la sfortuna. Un codice culturale che crea senso e memoria sull’emozione, per quanto possa sembrare paradossale.
Un poeta purtroppo troppo poco conosciuto in Italia scrisse una poesia attorno ad un suo amico morto sotto i suoi occhi: «Se lui si fosse mutato in pietra / in una pesante statua di marmo / indifferente e dignitosa / che sollievo sarebbe stato». Non vuole vederlo precipitare nel nulla e preferirebbe pietrificarlo nel freddo marmoreo di una statua. «Sic» non è un mito dei morti, ma un mito dei vivi, necessario ad avere un po’ di quel sollievo. Perpetuarne l’emozione in una sorta di pietrificazione digitale lenisce la sete di eternità. O la rinvia a data da definire. «Sic», come l’amico morto del poeta, ci interpella, con il suo «piccolo fagotto di ruvido mistero» (Z. Herbert, Il Signor Cogito). Il mistero chiuso in un fagotto interroga inesorabile la «mente collettiva» nascosta e confusa dietro al «cuore collettivo»: basterà pietrificare l’emozione e perpetuarla, basterà un talismano digitale, basterà un mito tragico e socializzato dalla rete a spezzare il pungiglione della morte?
Prof, perfetto, adatto e veritiero: come sempre!
bello, bello, bello.
Lui era un mito purtroppo non c’è più…
un pensiero molto profondo e unico… splendido…
grazie per rendere le giornate di noi giovani sempre colorate come l’arcobaleno…
In questo articolo si parla della differenza tra la morte “comune” e quella che si vuol far passare per “eroica” o eccezionale , dai tempi antichi fino ad oggi…giustissimo! Ma credo che la lezione più grande che si possa trarre dalla morte, è capire che siamo unici,ognuno è un pezzo unico.
Per questo un grande autore russo scrive che” un morto è una tragedia, e invece un milione di morti ,una statistica.”
Per questo nessuno può sostituire nel suo cuore, la persona che muore e finchè viviamo, dobbiamo cercare il nostro compito, quello unico, che solo noi possiamo svolgere; per lasciare, morendo, il mondo un pò più bello, più pulito e più giusto, di come l’abbiamo trovato.
Grazie per questo articolo bello, vero, profondo; la morte comunque ci interpella e la spostiamo oltre, lontano,invece di accettarla e viverla come compimento. Abbiamo paura della morte vicina come abbiamo paura di affidarci alla vita…
Mi sono commossa!!! Notando come tutto – da Omero a Sic – è legato, come tutto è attuale, e ci interpella e parla al cuore di ognuno di noi … di chiunque è sensibile e si lascia toccare, provocare dalle cose.
Fare scuola è anche questo: abbattere l’aridità, l’indifferenza, l’estraneità delle cose risvegliando la sensibilità, l’amore per la realtà.
Ma da cosa si capisce che chi scrive l’articolo e’ cristiano? E che la morte non e’ l’ultima parola sulla vita? Oppure e’ tutto: “liceo, lavoro, figli…destinazione cenere?”
Ma da cosa si capisce che chi scrive l’articolo e’ cristiano?
Penso da qui:Non era più necessario conquistare Troia e magari morirne, per diventare eroe. Lo era anche chi rimaneva a casa. Il quotidiano venne improvvisamente illuminato in ogni suo angolo, perché la morte non aveva l’ultima parola, e il gesto eterno non era più solo quello eroico e coraggioso, ma quello fatto con amore, spesso eroico e coraggioso, proprio perché quotidiano come la carne di un Dio che sembra vivere e morire come vivono e muoiono gli uomini, ma poi torna dalle tenebre della morte, a dire, ribaltando Achille, che l’ultimo dei servi di qua è il primo dall’altra parte.
Da ogni tragica morte di un giovane campione, ha origine il mito.
In questa era, digitale, come in quella precedente, televisiva, o in quella ancora prima, e così via.
E’ sempre stato così: Senna, Piquet e tutti gli altri.
Tutti campioni, tutti giovani, tutti tragicamente strappati a questa vita, tutti miti, tutti perchè a cui non sappiamo dare risposta.
Come può l’eroe, colui che incarna il sogno e la vittoria, soccombere, spegnersi, morire? Perchè?
La risposta ce l’abbiamo sotto gli occhi.
In quei due pezzi di legno che assiemano la silenziosa morte del vicino di casa, quella fragorosa del campione, quella intrisa di sangue dell’ucciso, quella umilmente eroica del martire.
Due pezzi di legno a formare la Croce che tutto raduna, innalza e redime.
A noi, senza fiato, rimangono i riti per ricordare volti, esorcizzare paure, perpetuare ricordi.
Loro, le anime, ricevono in dono la Salvezza e l’Eterno.
La morte di questo giovane ragazzo ha unito “una società senza verità condivise”…secondo me è questo il punto.Non avendo certezze ma soprattutto ideali,etica (valori?)essa”si abbarbica al ricordo” facendone un “talismano digitale” un ricordo pietrificato per allontanare o procrastinare “la sete di eternità”.Aristocraticamente elegge un eroe dello sport a mito come facevano i Greci con gli eroi della guerra ma è appunto questa la differenza:questi ultimi morivano per qualcosa e non perivano in maniera accidentale come questo povero giovane…
Saremmo poi disposti a dare,spendere la nostra vita per un ideale,una persona…un sogno?La paura ci tiene legati a se come voleva fare Nausica con Ulisse ingannandoci con la banalià di una vita facile ma “l’eroe” non cedette.Invece noi siano come Leo che quando finalmente rivede la sua Beatrice scappa perchè la sofferenza e la morte quella vera gli fanno paura o più semplicemente assomigliamo al professore che pur amando Stella ha paura di sposarla perchè l’impegno”stanca”….forse più che una società della”seconda oralità” siamo soltanto uomimi “in fuga da” e chi scappa lascia lascia tutto così com’è : “pietrificato”
Grazie, Maria. Mi hai dato materia per continuare la riflessione.
Ma grazie a te Alessandro per quello che scrivi!Ho letteralmente divorato i tuoi libri!Scusami forse sbaglio(non ho tanti studi alle spalle) ma tu hai la grande capacità di raccontare la straordinarietà dell’ordinarietà;le tue sono storie semplici e tuttavia ogni personaggio scava un solco nel cuore del lettore perchè attraverso di loro affronti temi universali come la Morte,l’Amore,l’Amicizia…Dio.(…i quadri di Rembrandt mi comunicano le stesse sensazioni!)Ti auguro ogni bene e di sfruttare sempre a pieno “i tuoi talenti”!
Questo è uno dei commenti più belli e azzeccati che io abbia mai ricevuto. Grazie, Maria.
:-)!
Voglio continuare a credere che la morte sia sorella della vita, in quanto tale non una nemica, ma una fase da attraversare, forse addirittura un’alleata. Cristallizzare nel ricordo impedisce di “lasciar andare” e aprirsi al mistero ed è indice di quanta poca familiarità abbiamo con la morte e di quanto insistiamo nell’affannarci a non volerle aprire la porta continuando a considerarla un’ospite indesiderata.
Il dolore va certamente vissuto, ma, se accolto, non è mai fine a se stesso e, come le nubi nascondono il sole, il dolore nasconde (ma non cancella) la gioia.