Pro-vocare
Ogni ragazzo ha una vocazione: è chiamato a farsi carico della propria vita, così come è e come potrebbe essere. La vocazione è questo: accettazione del proprio compito nel mondo, a partire da ciò che non abbiamo scelto, arrivando a ciò che scegliamo.
Per questo amo dire che gli educatori sono PRO-VOCATORI: gente che ti aiuta a sentirti chiamato alla vita. La tua.
Ma per pro-vocare bisogna essersi fatti carico della propria vocazione.
Per questo non mi piace questo continuo paragone con Keating. Mi piace la sua passione, non il suo controllo.
Ci giro intorno da dieci anni, ma come sempre qualcuno lo aveva già detto: prima e meglio.
“La nascita e lo sviluppo di una vocazione richiede spazio: spazio e silenzio. Il rapporto che intercorre tra noi e i nostri figli dev’essere uno scambio vivo di pensieri e di sentimenti, e tuttavia deve comprendere anche profonde zone di silenzio; dev’essere un rapporto intimo, e tuttavia non mescolarsi violentemente alla loro intimità; dev’essere un giusto equilibrio tra silenzio e parole.
Noi dobbiamo essere importanti per i nostri figli, e tuttavia non troppo importanti; dobbiamo piacere un poco, ma non troppo, perché non salti loro in testa di diventare identici a noi. Noi dobbiamo essere con loro in un rapporto d’amicizia, eppure non dobbiamo essere troppo i loro amici, perché non diventi loro difficile avere dei veri amici.
Noi dobbiamo essere per loro un semplice punto di partenza, offrire loro il trampolino da cui spiccheranno il salto; essi devono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro: sempre disponibili, presenti nella stanza vicina, pronti a rispondere…
E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l’abbiamo tradita, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell’amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l’abbiamo, o se l’abbiamo abbandonata o tradita, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago ad un relitto, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi è mancato: vogliamo che siano in tutto opera nostra.
Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l’abbiamo rinnegata o tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dall’ombra e dallo spazio che richiede il germoglio di una vocazione. Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione: avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione.”
“Le piccole virtù” di Natalia Ginzburg – Einaudi
Che meraviglia!
Volevo solo dirLe che, per fortuna, durante la mia mia “carriera” scolastica ho incontrato al liceo un prof. come Lei e mi creda non lo dimenticherò mai e soprattutto non dimenticherò mai tutta la ricchezza che ha saputo tirarmi fuori. Mi ha insegnato a “guardare” e, anche se a volte lo maledico perchè avrei sofferto meno se fossi rimasta cieca, lo ringrazio attraverso questo blog per il coraggio delle mie idee, per “la bellezza delle cose che ama nascondersi”.
Caro Alex, grazie per questo testo. Mi interpella come “padre” ed educatore..Per me la parola “vocazione” è pane quotidiano, ma fuori da ogni forma di riduzionismo partigiano, vocazione è parola che apre varchi, che sprigiona energia, che respira vita.
L’idea che qualcuno, qualcosa ti cerchi, ti chiami, ti desti alla vita…Qualcosa/Qualcuno che è contemporaneamente fuori e dentro di te, come se dal mondo esterno, dagli altri giungesse un’esca, ma poi questa “funzionasse” nella misura in cui la immergi nel tuo cuore e aspetti di vedere che cosa aboccherà.
p.s. Da sabato ho il tuo libro, me ne sto nutrendo,
grazie Sognatore!
E-ducare è anche pro-vocare. Questa affermazione, che risponde al vero, e non solo per ragioni etimologiche, suggerisce una sorta di ribaltamento di prospettiva. Di solito si dice, con i consueti toni moralistici, che sono i ragazzi a pro-vocare noi adulti. E la cosa ci secca. Reagiamo male, nel peggiore dei modi: trincerarci dietro il nostro ruolo e le nostre asserite certezze, che proviamo a dispensare come verità incontestabili. E loro, per nulla soddisfatti, continuano ovviamente a pro-vocarci. Dovremmo ringraziarli anzichè arrabbiarci. Le loro provocazioni sono come la luce innaturale che, nel dipinto di Caravaggio, raggiunge Matteo e lo spinge, incredulo, a puntare il dito verso se stesso e a dire “Io? Ma proprio io?”. In certi momenti di grazia, in aula, osservando i miei ragazzi magari chini su un compito, mi è esplosa in mente una domanda simile: “A me? Proprio a me? Proprio a me sono affidate questi tesori?” E’ la loro sola presenza a provocarmi e a inchiodarmi alla mia vocazione. Vocazione che consiste nell’affiancarli nella difficile scoperta della loro. E allora il dito che, come Matteo, ho idealmente puntato verso me stessa, per farmi carico di tutte mie responsabilità di educatrice, provo a puntarlo lontano, e ad invitarli a volgersi senza paura verso la luce che, in tempi e modi che sfuggono alle logiche umane, bacerà ciascuno di loro.
…”Se invece una vocazione non l’abbiamo, o se l’abbiamo abbandonata o tradita, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago ad un relitto, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi è mancato: vogliamo che siano in tutto opera nostra”…
Da genitore mi sento di aggiungere: che il mettere al mondo dei figli è un atto di amore, il volerli poi possedere è egoismo.
Bellissimo post!Io ora mi guardo indetro e mi rendo conto che se fossi stata senza i miei genitori (e ora sono senza papà), probabilmente avrei fatto tante cose…
Ma grazie a loro, ho imparato a farle Amando!=)
Sono d’accordo con te: le vocazione è un “moto a luogo”.
Come educatore è giusto prefiggersi il compito di pro-vocare, non ovviamente indicando il percorso, in quanto unico ed irripetibile, ma pro-muovendo la facoltà di gettare lo “sguardo”.
Può sembrare contraddittorio porre in due emisferi diversi la “vocazione” e il “desiderio” ma non sempre è così scontato: Ammesso che i genitori e gli insegnanti aiutino a trovare, come è giusto che sia, la propria vocazione, una volta trovata, nel caso in cui la vocazione non dovesse corrispondere alla volontà di tale individuo, a chi spetta aiutare quest’ultimo nello scegliere una delle due opsioni? Chi stabilisce qual è l’itinerario migliore da prendere? Forse in questo caso, trovandosi davanti a un tale bivio, rivolgersi ai ‘punti di riferimento’ non è sufficiente. Definirei necessario il prevalere del desiderio e della volontà della persona; ma allora tutto il provocare da parte dei genitori e degli insegnanti sarebbe stato inutile?
Bravo, era ora di mettere le cose in chiaro rispetto a quel bischero di Keating! Ambiguo protagonista di un filmaccio ruffiano e ancor più ambiguo, per quanto denso (in negativo) di spunti di discussione. Troppo idealizzato, il prof. Keating: speriamo venga presto soppiantato, nell’immaginario collettivo, dal ben migliore Sognatore!
Gentile prof. D’avernia,
scusi se il mio commento sarà per niente inerente al suo intervento sul blog…il problema è che lei mi ha fatto piangere, tutto il pomeriggio, inconsolabilmente, mentre leggevo il libro. al posto di studiare fisica, matematica e greco, io stavo lì e leggevo, piangendo.
i miei sedici anni sono passati, ora di anni ne ho 18, sono una studentessa, frequento il terzo liceo classico, l’anno della maturità signori, quello che tutti aspettano, ma che alla fine è un anno come gli altri, solo più stress, “perchè ragazzi voi avete gli esami!” e grazie di avercelo ricordato, prof…
le sembrerò stupida, eppure io piangevo quasi di rabbia leggendo il suo libro. è come se lei mi avesse rubato la storia… sia chiaro, non punto per punto, ma in determinati aspetti, in determinati punti…
a sedici anni ero come Leo. con la differenza che studiavo, studiavo, studiavo… e ahimè continuo. mi piace in fondo, ma non si dice, già così sono imbranata in classe, già sono la secchiona… meglio che si sappia che studio per paura dei miei…
Leo ha paura del bianco non ci pensa, ne scappa, ha chi lo aiuta a sfuggire, almeno un po’. io il mio bianco l’ho avuto vicino, così vicino che ne ho ancora i segni sulla pelle… eppure i sedici anni hanno quel qualcosa che un po’ mi fa voltare indietro, anche se le cicatrici sui miei polsi, sulle mie braccia ancora non si schiariscono…era bello a 16 anni fare gruppo, avevo anche io il mio Niko, la mia sorella d’elezione, quella che stava sempre a casa, compagna di banco e di sfide…ma io l’ho persa, Leo ha ritrovato Niko alla fine… sarà vero che noi donne simo più complicate. era bello a 16 anni avere quell’amico un po’ speciale, che però non è mai diventato il mio ragazzo, perso pure lui nel bianco, perso pure lui…
adesso ho quasi 18 e piango ancora per i libri, piango ancora per tutto. ma del bianco non ho più così tanta paura da farmi male. adesso ho altre paure, che volano oltre i libri, oltre la scuola… cosa fare di questa mia vita dopo la maturità? devo compiacere i miei o lottare? andarmene o restare? è questo il mio bianco…
c’è un punto nel libro dove non sono proprio riuscita a muovermi… quando Leo legge “Qualcuno con cui correre”. è il libro, il mio libro. quello che nessuno di speciale per me riesce a leggere e capire, perchè è pesante, noioso…ma allora forse non sanno leggere.
grazie di questo libro, prof. grazie.
Alex, ogni volta che ti leggo mi riporti indietro nel tempo, quando anch’io come te credevo in quello che facevo. insegno storia dell’arte e per caso mi sono imbattutto nel tuo romanzo rovesciando una pigna di libri mondadori..incimpando proprio in bianca come il latte..è molto simpatico è coinvolgende…un saluto, giammy, como.
@ Francesca
“Qualcuno con cui correre” è un altro libro speciale. Me lo regalò un amico che voleva condividere con me quel tesoro. Ci si è talmente innamorato che ha comprato una cagna e l’ha chiamata Dinka, come nel libro!
In fondo, leggere cose belle aiuta non solo a cercare il “rosso”, ma anche a capire meglio il bianco. Non è sempre possibile cacciare tutto il bianco, ma se lo capisci un po’, se fa crescere l’appetito per il rosso…allora anche il bianco acquista senso, specie se qualcuno ti accoglie, si prende cura di te, del tuo bianco.
e si, qualcuno che si prendesse cura del mio bianco l’ho trovato, però in fondo mancano sempre quegli amici che col tuo bianco non volevano averci niente a che fare^^ alla fine, trovare qualcuno con cui correre si trova ^^
Caro professore (o anche Sognatore), sono una ragazza di 14 anni, frequento il primo anno del classico. Devo ringraziare immensamente la mia prof. di italiano che ha suggerito alla mia classe la lettura del Suo stupendo libro. La ringrazio per aver scritto un libro così vero, per la prima volta mi sono sentita capita da un adulto che parla il linguaggio dei giovani e non se ne vergogna.
La prego di scusarmi se il mio commento non riguarda il suo bolg, ma grazie al suo libro mi sono accorta di essere caduta un po’ nel bianco. Forse mi sbaglio e forse non ho capito niente del suo libro e mi scuso per questo, ma credo che il bianco rappresenti i pensieri, se ti perdi nel bianco ti perdi nei pensieri ed il problema fondamentale è che se ti perdi nel bianco non vivi. Credo che una persona debba essere capace di combinare bianco e rosso e di stare attenta a non perdersi nè nel bianco nè nel rosso.
La ringrazio ancora e mi scuso per la perdita di tempo che le causo. Grazie.
E per fortuna esistono ancora i sognatori appassionati, quelli che non si vergognano di esserlo; e per fortuna esistono ancora le notti bianche a S.Pietroburgo. 🙂
Da una settimana ho conosciuto questo blog, ho letto il tuo libro e mi sono rallegrata per l’esistenza di una persona con un’anima così bella. Grazie, Alessandro. Condivido molti dei tuoi pensieri , quando non sono triste. La tristezza a volte fa dimenticare quanto è fortunato chi vede la luce ogni mattina, chi guarda i suoi alunni assonnati e sorridenti ogni mattina, chi parla col suo Dio ogni mattina e cerca di imparare ogni giorno ad amare meglio, a fare meglio il proprio lavoro e a ringraziare sempre. A presto, buona vita!
M.E.R.A.V.I.G.L.I.O.S.O. Alex
“Io faccio quello che sento”e’ una frase che risuona spesso come risposta a tutto cio’ che e’ il prodotto delle nostre azioni,ma in realta’ e’ un’arma pronta a tornare indietro con violenza, perche’ in verita’ non sempre “sappiamo”cio’ che sentiamo dentro. Capirsi, ascoltarsi e’ forse il lavoro piu’ difficile che siamo… chiamati a fare,siamo in grado di dare un nome a tutte le cose che ci circondano, dovremmo imparare a dare a ciascun sentimento che ci governa,ci spinge, un nome,educare cosi’ il nostro cuore.Questo piccolo, grande romanzo, ci offre la possibilita’ di percorrere per intero la nostra storia di adolescenti e di adulti, tra le crepe dei muri della coscienza,si puo’ conservare un messaggio di speranza, e di fiducia, di accettazione di noi stessi, di coraggio nel seguire quella voce interiore,quella chiamata personalissima..divina,a cui ognuno di noi deve porgere l’orecchio prima o poi..Grazie Alessandro e torna presto a Napule’.:-)
ho finito adesso di leggere il libro… ho compiuto 35 anni ieri e con quelle parole sono tornata indietro nel tempo, a quei battiti e a quelle emozioni… grazie!
Dedicato ai genitori dei bimbi di prima elementare
di Davide Rondoni
Editoriale tratto da del 15 settembre 2005
Sono iniziate le scuole. Ci sono problemi, come al solito. Ma io fisso te, me, genitore che si ferma fuori dalla scuola. Padre, o madre che tu sia. Fermo quando resti in piedi, nella luce varia dei mattini. O seduto in auto, da solo.
Tutti parlano di loro che entrano: quanti sono, quante aule mancano, quanti prof. E che riforme. Ma io fisso te. Quando accompagni i tuoi figli e li vedi entrare in un mondo che non è più sotto la tua influenza. Vanno dove altri parleranno, diranno cosa fare, e cosa guardare e come pensare. Li vedi andare, piccoli, verso ciò che non conoscono. E che non conosci neppure tu. Se ne vanno da te. Più chiaramente. Sì, d’accordo, il rapporto con le maestre, gli organi collegiali, le comunicazioni scuola-famiglia… C’è tutto quel che occorre, se si vuole, perché la famiglia sia collegata alla scuola. Ma no, non sai dove vanno. Dove cominciano ad andare. Li puoi immaginare, ma è il primo posto dove non c’entri. La prima loro vita senza che t’impicci. Adesso puoi iniziare a chiedere loro: allora, com’è andata ? Come a uno che torna da un posto che non conosci. E quel “qualcuno” iniziano ad essere loro, i tuoi figli. Che pensavi di conoscere. E che inizi a non conoscere più, per iniziarli a riconoscere. Come non tuoi. Come gente che ti è arrivata tra le braccia, e che se ne va. Che se ne va dove deve andare. E che si volta a guardarti per non avere paura. Si volta a vedere che luce hai negli occhi. Perché, cos’hai da dare loro ora? Sì, il pane. E speriamo il companatico. I vestiti. E qualcosa per girare. Ma loro andare devono, e di quel che impareranno molte cose non le sai. Nemmeno ti ricordi le operazioni di aritmetica per aiutarli a fare i compiti! E ti stupisci di come fanno ad imparare così presto l’uso del pc. E non sai cosa sapranno. Cosa avranno il piacere di scoprire, di imparare. E dolore di scoprire. E a che cosa dedicheranno la loro intelligenza, il loro cuore. Non riuscirai a dare loro tante istruzioni. Probabilmente ti lasceranno indietro. Ma si volteranno sempre, anche tra tanti anni. Per vedere se hai avuto paura. E che luce avevi negli occhi. Per vedere cosa stavi pensando vedendoli andare nel mattino a scuola: vanno verso la vita o verso il tradimento della vita? Verso la grande fregatura, o verso la grande avventura? Anche quando non ci sarai più, e starai in piedi dietro le nuvole o seduto in un’automobile celestiale (speriamo), si volteranno a guardare se chi li ha accompagnati fino alla porta che solo loro possono varcare, ha avuto paura. O era certo che qualcosa di buono c’è oltre la soglia di ogni esperienza. Non c’è nulla come il dramma della paternità. E della maternità. Che lascia andare. Che non trattiene. In questi giorni tutti i giornali parleranno di loro, dei marmocchi. E dei ragazzini, e dei giovanotti. Del loro entrare, del loro mischiarsi tra razze varie, delle loro facciotte simpatiche o foruncolose, della loro serietà maestosa e dolcissima di seienni o di quindicenni. Del loro tesoro che si mette nelle mani della scuola. Strana consegna, e perciò della enorme responsabilità. E ministri, esperti, statistici diranno la loro. Ma io getto uno sguardo a chi resta sulla soglia. A te, che come me, li hai visti sparire dietro la porta a vetri. E ti sembra strano commuoversi per così poco. E forse pensi: no, non è poco. È tutto quel che devo fare. È questo, in fondo, educarli. Che vadano, e quando si voltano, e quando tornano a raccontare, trovino uno sguardo interessato al vero della vita, e che non ha paura. Come quello di chi ti è stato padre. Senza avere un padre, infatti, senza uno con quello sguardo certo, non li avresti messi al mondo. I figli, quando li guardi veramente, ti chiedono di chi sei figlio tu, da dove hai preso quello sguardo.
Grazie professore,
cercavo un libro per mia figlia 14enne e l’ho trovato. Lei non legge, ha altro a cui pensare. Le avevo imposto di leggerlo, poche pagine e poi lo ha lasciato lì… anche se ha pronunciato “bello”…
Lo abbiamo portato in vacanza, ma non è mai andata avanti con la lettura perchè io continuavo a dirle “leggi!”. Verso la fine della vacanza lo ha preso in mano spontaneamente e in 3 giorni lo ha finito. E’ stata una soddisfazione meravigliosa quando mi ha chiesto: “ma c’è la continuazione di questo libro?”. Non le era mai successo di leggere un libro intero e la ringrazio di averlo scritto anche per lei!